• 26 Dicembre 2024
Editoriale

“La Bellezza è una specie di armonia visibile che penetra soavemente nei cuori umani”, scriveva  Ugo Foscolo. Oggi come potremmo definirla? Contro questo interrogativo s’infrangono tutte le possibili declinazioni che richiamano la formulazione breve e sublime del grande poeta. E se è vero che “la bellezza salverà il mondo”, secondo Fëdor Dostoevskij, forse è altrettanto vero che l’assunto dello scrittore russo sarebbe da abolire a fronte della Bellezza decaduta. Intorno a noi rovine moderne e antiche ci assediano e il contesto generale nel quale viviamo è connotato da una nauseante bruttezza, figlia della follia libertaria che ha sacrificato regole ed armonie davanti all’illusione di uno scellerato abominio chiamato razionalismo ed inveratosi in un utilitarismo finalizzato alla realizzazione del massimo profitto con il minimo delle risorse o anche senza risorse.

La Bellezza umana, come oggetto del desiderio; la Bellezza naturale, come oggetto di contemplazione; la Bellezza quotidiana, come oggetto della ragione pratica; la Bellezza artistica, come forma del significato e oggetto del gusto; la Bellezza erotica, come sublimazione del desiderio sessuale – secondo la classificazione di Roger Scruton – invitano nell’insieme a ricondurre il concetto stesso al sacro poiché tutto da esso discende. Ma se il sacro è respinto, vilipeso, negato come è possibile immaginare un’idea di Bellezza che sia universale e privata al tempo stesso? Infatti, nell’immaginario collettivo l’idea di  Bellezza  si è spenta quasi ovunque: rimangono oasi incontaminate tra gli attacchi brutali degli stili di vita e delle interpretazioni dell’arte, dell’erotismo divenuto pornografia, dei templi di Dio modellati secondo disgustose interpretazioni che rimandano a edifici profani oltretutto orrendi.

La Bellezza non esiste più? Essa è sotto tiro. E s’accompagna alla sporcizia perlopiù metropolitana segnata da indecenti graffiti che qualcuno vorrebbe far passare per opere d’arte.

La Bellezza, insomma, è un’idea inaridita. Su di essa si esercita la confusione concettuale e pedagogica prevalente nel nostro tempo. Non si viene sfiorati neppure dalla considerazione che la Bellezza non può essere rinchiusa nel recinto delle nozioni, ma deve volare nei cieli liberi del sentimento. Nell’unico spazio, cioè, dove l’intelligenza lascia il posto all’anima e questa guida e orienta le scelte umane. I ponti interrotti tra la razionalità e lo spirito hanno fatto cadere nel vuoto la Bellezza. E oggi la cerchiamo disperando di trovarla nelle ombre di un passato che esita a farsi storia a meno che non si sia disposti a riconoscere nelle forme (arte, parola, gesto) l’armonia che viene da un inconoscibile mondo, il mondo di Dio.

Pensavo al miracolo che accade in un essere umano quando riesce a trarsi dalla prigionia della Ragione e ad accostarsi alla conoscenza attraverso la regolarità che si esprime nell’ordine naturale che dovrebbe ispirare l’ordine umano: ha la possibilità di vedere la creazione nello splendore dell’anima che si serve dell’intelligenza per manifestarsi.

Qualche anno fa, il restaurato capolavoro di Raffaello Sanzio, La Madonna del cardellino, per dirne una, offrì una visione metafisica dell’armonia della Bellezza. E rimanda all’evocazione di un mondo perduto, una sorta di Eden artistico-esistenziale del quale la Bellezza era parte integrante. Si dirà che il Cinquecento è stato un secolo “umanissimo”, nel senso datogli dagli artisti che lo hanno caratterizzato. E perciò lo splendore della metafisica europea si è potuta esprimere nelle loro opere. Ma anche in seguito, prima della catastrofe razionalista, qualcosa del genere, sia pure in tono minore, si è manifestato nelle arti figurative. Restando, infatti, nel sistema delle forme non si negherà l’esaltazione della Bellezza del corpo, dell’erotismo, della passione. Insieme, il tutto si è tradotto in un canto d’amore. Struggente, esaltato, doloroso perfino, ma comunque un canto d’amore come lo è una nascita o una morte.

Nel principio e nella fine è insita l’idea di Bellezza poiché essa rimanda alla ricomposizione delle strutture primarie dell’esistenza che quando vengono trasferite dalla mano dell’uomo nella creazione danno luogo all’esaltazione religiosa dell’intelligenza. Perché, allora, la Bellezza è un’idea inaridita? Per il semplice motivo che essa connota, aggettivandola, qualsiasi cosa, indipendentemente dalla ragione profonda che la ispira.

Bellezza, infatti, nella considerazione comune e prevalente, è la volgarità trasgressiva che s’impugna per vanificare il riconoscimento della religiosità insita nelle opere dell’uomo quali emanazioni della divinità. Bellezza è la glorificazione del tormento di chi cerca nell’avidità la ragione ultima della sua affermazione. Bellezza è la concettualizzazione della vacuità e dell’effimero in una voluttuosa ricerca del soddisfacimento della concupiscenza. Bellezza è il tramonto dell’Essere nella violenza al Creato; è l’interruzione del silenzio; è la profanazione della pietà; è il sordo rancore verso la pratica dell’umiltà; è il peccato esaltato come virtù. E tutto questo qualifica la modernità, naturalmente.

La vistosità dell’osceno, infatti, si apre davanti a noi, in maniera clamorosa, con il risucchio nelle megalopoli dove l’estetica dell’arido celebra i suoi trionfi e occulta i segni della sacralità come eresie da esibire di tanto in tanto per spiegare la tolleranza con il diritto riconosciuto perfino all’estraneo ad esserci. Eppure la Bellezza può esistere nel gulag dello sconcio nel quale il bordello delle idee tiene insieme qualsiasi orrore. Il problema, semmai, è riconoscerla. Si fa fatica, indubbiamente. E certo le istituzioni formative non aiutano. Anzi, al contrario, offrono l’indecente spettacolo di una devianza elevata a normalità: il Brutto è Bello. O, quantomeno, tutto è lecito, niente deve essere respinto se non ciò che è naturaliter “normale” secondo i canoni millenari di civiltà che hanno avuto la capacità di rigenerarsi dopo le loro cadute.

La tragedia del nostro tempo, così bene descritta da Nietzsche e da Benn, e preconizzata, al di là delle loro stesse intenzioni, da Hölderlin, Novalis e Goethe, è l’irriconoscibilità del cammino dello spirito nell’arte e nel pensiero.

L’esito, immaginato dai critici della modernità, talvolta con accenti folgoranti, a cominciare da Heidegger, è l’ineluttabilità della decadenza. Il nichilismo come destino, insomma. Può esserci Bellezza nella decomposizione di ciò che nasce per restare armonico? Il mondo delle forme subisce di questi tempi oltraggi di spaventosa violenza. Perciò l’opposizione all’estetica dell’arido si configura come una rivolta creativa contro l’utilitarismo dei modi di sentire, degli stili di vita, dei gusti dominanti. Ed è la maniera, la sola che si possa riconoscere, per ricreare le condizioni affinché la Bellezza riemerga.

Un ritorno alla classicità? Non bisogna temere le parole, né tantomeno le idee. Il mondo classico ci ha fornito le forme che la modernità ha deformato. Rimettere a posto le cose non vuol dire annegare nella memoria, ma renderla dinamica; guardarsi indietro e riconoscere i percorsi lungo i quali potrebbe formarsi l’avvenire. Non è un’operazione intellettualistica, come a prima vista potrebbe apparire. Essa è piuttosto una sorta di arte religiosa della restaurazione della verità. Come immaginava Wagner “inventando” l’opera d’arte totale, l’opera dell’avvenire, insomma, nella quale l’estetica e la trascendenza convivano in maniera mirabile nella descrizione della Bellezza suprema come, ad esempio, è stato nella riproposizione del mito di Parsifal.

Nei secoli negati dopo la Grande Rivoluzione che ha spazzato via le certezze e reso certo il provvisorio, relativizzando perfino l’esistenza, la rappresentazione del sacro nelle dimensioni proprie dell’umanità viveva in maniera talmente naturale da non avere alcun bisogno di essere esplicitato. Le figure dell’antichità ne sono ancora oggi esempi eloquenti nei quali è riscontrabile un “soffio divino” che non contrasta neppure con le immagini profane attinte fuori dal recinto religioso.

Con questo si vuol dire che non può darsi Bellezza al di fuori di una fenomenologia della rappresentazione che non abbia una connotazione religiosa (il che, naturalmente, con le fedi non c’entra nulla). I nostri tempi, bisogna riconoscerlo, sono avari di slanci metafisici. Tutto è ridotto a materialità da consumare. E così l’arte, la musica, la poesia, il paesaggio. E anche l’erotismo, il linguaggio del corpo risentono dell’assenza di una vertigine sacrale che li riconsacri al piacere come nel Cantico dei cantici. Tutto è da usare, da gettare, da scomporre. Ogni cosa ha un prezzo, un mercato, un fine immediato. E niente è più riconducibile all’eterno, dopo il passaggio dei barbari che per la nostra felicità hanno edificato, pietra su pietra, una nuova Babele che non lambirà mai il cielo.

Perciò la Bellezza se non è scomparsa dal nostro orizzonte, si è quantomeno occultata agli occhi dei più. E la Modernità celebra il suo trionfo più grande: la negazione del Bello dietro la sparizione di Dio.

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.