Il seppuku di Yukio Mishima non lasciò indifferente la stampa italiana che con dovizia di particolari non soltanto diede la notizia, spesso in prima pagina, ma si profuse con commenti, inchieste e vecchie interviste rilasciate dallo scrittore qualche tempo prima della morte nel coprire l’evento che suscitò, non soltanto nella comunità degli intellettuali, grande impressione.
Il Tempo, quotidiano romano, il 26 novembre, pubblicò un servizio molto dettagliato dal titolo “Fa karakiri e viene decapitato un candidato al premio Nobel”. L’articolo iniziava così: “ ‘Tenno banzai!’ (Viva l’Imperatore) ha gridato Yukio Mishima, poi è rientrato nella stanza dove i suoi uomini avevano immobilizzato il generale Masuda ed ha fatto kakarakiri. La morte da samurai è stata la conclusone di una vita dedicata al culto della forza, della gloria e della tradizione do un Giappone medioevale che né la rivoluzione industriale, né l’apocalisse scesa sui cieli di Hiroshima e Nagasaki hanno veramente cancellato, nel fondo dell’anima nipponico”.
Il giorno dopo, lo stesso giornale dedicò un lungo commento alla morte di Mishima ipotizzando che lo scrittore “aveva progettato un autentico colpo di Stato”. Un’esagerazione dettata dallo choc provocato in Giappone dal gesto cruento che rimandava ad antichi rituali guerrieri. In realtà Mishima non immaginava né colpi di Stato, né rivolgimenti repentini nella sfera politica. Voleva soltanto testimoniare il proprio disgusto politico, morale e civile per come il Paese viveva lo snaturamento della priorità identità. Fu un atto patriottico, come poi convennero molti commentatori, piuttosto che il gesto di un folle che con qualche decina di ragazzi non avrebbe mi potuto immaginare qualcosa che somigliasse ad un “golpe” peraltro contro l’Imperatore al quale si rivolse con le sue ultime parole in maniera assai deferente. Il Tempo annotò anche che “una parte dell’opinione pubblica – ed in ciò si spiega il gesto di Mishima – preme affinché il Paese possa recitare il suo ruolo nel concerto delle nazioni. Ma, purtroppo, una simile posizione non può escludere un rilancio del riarmo e la ricostituzione di un nuovo spirito nazionalista di tipo militarista”. Lo stesso giornale, due giorni dopo, smentì quanto aveva scritto titolando un articolo ispirato da fonti nipponiche: “ Nella fantasia di Mishima il putsch militare in Giappone”. Nulla di reale, dunque, soltanto la deduzione da parte di ambienti giornalistici dei rapporti tra lo scrittore ed alcuni circoli militari con i quali intratteneva rapporti cordiali.
L’organo ufficiale del Movimento Sociale Italiano, Il Secolo d’Italia, titolò in prima pagina: “Scruittore giapponese fa karakiri contro il pacifismo”. Il giorno successivo, in un ampio servizio intitolato “L’ultimo samurai entra nella leggenda del Giappone”, corredato dal sommario che recitava: “L’harakiri di Yukio Mishima non è il gesto di un folle, ma la scelta drammatica di di una lucida disperazione: che la si capisca o no esige comunque rispetto”, scrisse: “Yukio Mishima è un nome che è entrato nella legenda del grane Giappone. L’ultimo samurai è già diventato un mito per una intera generazione e per tutto un popolo sommerso dagli pseudo-valori mercantilistici che hanno percorso le latitudini del dopoguerra”. In un’assemblea del FUAN, l’organizzazione universitaria del Msi, il 30 novembre Mishima venne commemorato: “Il gesto aristocratico di Yukio Mishima deve invitare alla riflessione oltre che al cordoglio per una perdita irreparabile non solo per la cultura moderna ma soprattutto per la nostra cultura”
“I giovani – venne detto – comprenderanno facilmente che il suicidio del grande scrittore è stato soprattutto una affermazione crudele e meravigliosa, secondo la sensibilità nipponica, di quella vita solare e dignitosa che che l’attuale regime clerico-marxista non solo ci impedisce… ma soprattutto cerca maldestramente di occultare”. Il riferimento era all’oscuramento della notizia da parte della Rai-Tv, secondo i giovani del Fuan.
Sul Borghese, Piero Buscaroli pubblicò un reportage strepitoso sulla fine di Mishima, intitolato “Una domanda scritta col sangue”, nel quale, oltre a ricostruire l’accaduto espose i tratti geopolitici dell’arte a estremo-orientale che facevano da sfondo al suicidio dello scrittore. E si diffuse in particolari che nessun altro giornale italiano riportò, come questo che segue : “Quando ebbero portato via i corpi di Mishima e del suo seguace, rimase lì, le teste recise, sanguinanti, poggiate su un foglio di giornale, che non sporcassero lo studio del signor generale. Allora, arrivò un altro scrittore, il più illustre del Paese, ‘il tesoro umano’, come lo chiamano, Yasunari Kawabata: un I taglio di avorio minuto, fragile viso rugoso incorniciato di lunghi capelli d’argento, il solo Nobel per la letteratura di tutta l’Asia. Era a un funerale, quando gli dissero come e dove Mishima, che egli proteggeva e stimava, si era tolto la vita. Salì il colle Ichigaya, entrò nell’Agenzia di Difesa, e lo portarono a vedere le due teste deposte sul giornale. Kawabata ha settantun anni. Guardò la testa dell’amico, i suoi occhi socchiusi, e pianse. Non disse che era pazzo. Non disse nulla. Forse, riepilogò le cause per cui un samurai , in altri tempi, si toglieva la vita: per sottrarsi alla morte data da estranei; per protestare contro un’ingiustizia subita; per testimoniare la sua fedeltà all’Imperatore. Se uno sa comprendere uno di questi moventi nel suo significato più ampio, si rende conto che Mishima si è ucciso per tutte e tre le ragioni insieme. Kawabata pianse in silenzio. Egli sa che in una nazione tutto il passato è vivo e ritorna. Ci sono voli di aquile, che le galline non capiranno mai. Che cosa sanno le galline, di quello che ci può essere nel cuore di un’aquila?”. E concluse, dopo una minuziosa descrizione dei rapporti politici tra Oriente ed Occidente, ritornando sul rito sacrificale dello scrittore: “Mishima aveva sperato nel nuovo programma dell’Agenzia di Difesa. Poi, il programma è uscito all’aperto ed è apparso quello che era, una beffa, l’ennesimo tentativo di nascondere il capo, di non rispondere all’interrogativo del maestro.
“Mishima ha voluto, semplicemente, dare a quell’interrogativo una tragica urgenza. Che qualcuno sentisse e capisse. Non aveva altri mezzi di persuasione che il suo sangue. E ha versato il suo sangue per scrivere una domanda, che il suo popolo non potrà eludere negli anni a venire”.
Anche i giornali “borghesi” dedicarono ampio spazio alla vicenda. Ricordiamo il Corriere della sera con un articolo dell’inviato a Tokyo Paolo Bugialli, manco a dirlo, teso a denigrare l’azione di Mishima e dei suoi seguaci, figli della follia e dell’ imperialismo che la ispira; La Stampa con un servizio ripreso da Le Monde a firma di Robert Guillain, nel quale si leggeva che il gesto di Mishima “dimostra che la salute del Paese non è buona. C’è incontestabilmente in Giappone, anche nell’opinione pubblica moderata, una rinascita del sentimento nazionalista ed un sensibile indietreggiamento del pacifismo assoluto dei venticinque ultimi anni”. L’attaccamento al pregiudizio impediva la comprensione del suicidio di Mishima, mentre metteva una sorta di veto non esplicito alla lettura delle sue opere in Occidente.
Il quotidiano romano Il Messaggero, oltre a fornire una cronaca dettagliata dell’evento, affidò a Costanzo Costantini un commento sull’opera letteraria di Mishima, sulle sue abitudini, sui suoi conflitti psicologici, perfino sulla sua vada che l’editorialista ben conosceva per esservi stato ospite. Riferendosi, tra l’altro, ad uno dei più intensi romanzi di Mishima Il Padiglione d’oro, Costantini traeva queste conclusioni: il Giappone viveva a suo giudizio, “una crisi storica di portata incalcolabile: franati gli antichi valori – il potere politico imperiale, il potere religioso ad esso connesso, il diritto costituzionale, l’autorità paterna che governava dispoticamente la famiglia – il Giappone si ritrova dinanzi a valori estranei, ed avverte, con un senso di vertigine, il vuoto che si spalanca fra un mondo anacronistico e un mondo inaccettabile… Yukio Mishima esprime questa crisi di valori, questa crisi di disperazione, con una suggestiva e affascinante commistione di elementi, orientali e occidentali: con la concezione buddista secondo la quale la bellezza non è altri che apparenza; con l’ impulsò freudiano alla ribellione e alla distruzione ; con la carica nichilistica proveniente dall’esistenzialismo europeo e specialmente francese; con le idee dostoeskiane della bellezza e della suggestione del male”.
Incomprensione? Oggi nessuno scriverebbe queste cose di Mishima. Non dimentichiamo che eravamo nel 1970. Esplodeva la cultura freddo-marxista, il Sessantotto presentava il conto alle società borghesi di cui era figlio; il materialismo teorico trasbordava nel materialismo pratico; il sogno rivoluzionario della società degli eguali e la dura contestazione ai principi gerarchici segnavano la cultura del tempo. Che cosa ci si poteva attendere da chi, al di là del menar scandalo per il suicidio rituale di Mishima, doveva demonizzare a tutti i costi lo scrittore e quella sua strana idea del Giapppne legato ad un’identità ancestrale, al culto di una memoria millenaria, al militarismo nazionalista come fondamento di una comunità organica che si reggeva sui valori dell’onore, della fedeltà, del sacrificio, della bellezza, del culto dell’Imperatore come derivante dalla Dea Amaterasu.
Era troppo perché Mishima potesse essere altro da come lo si poteva considerare secondo i canoni di un occidentalismo “barbaro”. Mishima, scriveva Costantini, “si era travestito da europeo, ma nel suo animo si sentiva profondamente nipponico”. Se avesse potuto leggere La Coppa di Apollo, Costantini sarebbe giunto ad altre conclusioni. Ma il conformismo dell’epoca non poteva che portare a certe conclusioni che i giornali benpensanti enfatizzarono al di là della pietà, se non ci si arriva con l’intelletto, doverosa di fronte alla morte volontaria di un uomo di quarantacinque anni all’apice del successo letterario, candidato al Nobel, apprezzato in Occidente nei circoli più sofisticati che non tardarono ad imporre la sua opera che oggi, cinquant’anni dopo, prospera come nessuno a quel tempo avrebbe mai immaginato.
Lo comprese Alberto Moravia, che lo aveva conosciuto a Tokyo ed era stato ospitato in casa sua. Il 6 dicembre scrisse un lungo articolo per L’Espresso, utilizzato un anno dopo come prefazione ai racconti raccolti sotto il titolo Morte di mezza estate, pubblicati da Longanesi. “Morire da samurai” era il titolo, sormontato da un occhiello molto esplicito:” Che cosa ha voluto dimostrare al suo Paese e al mondo lo scrittore giapponese”. Al di là della tristezza che colpì Moravia, lo scrittore tratteggiò la figura di Mishima senza pregiudizi, pur non condividendone l’ideologia. “Mishima – scrisse tra l’altro – non era soltanto uno scrittore celebre. Era anche un ‘personaggio pubblico’, ciò che negli Stati Uniti si chiama public figure. Cioè uno scrittore che oltrepassava i limiti della letteratura e sconfinava, con la sua notorietà e la sua influenza, nel costume”. E come personaggio pubblico Mishima venne giudicato, non come romanziere, saggista, autore teatrale, regista, ma come una figura rappresentativa. Fu per questo che il suo gesto estremo mise in subbuglio il Giappone. E per quanto molto si fecero beffe di lui, egli mise nell’anima del suo Paese un interrogativo al quale mezzo secolo dopo nessuno è in grado di rispondere. Moravia scriveva che come scrittore Mishima era rappresentativo del Giappone dualistico e contraddittorio nel quale “accanto ad una rivoluzione industriale e neocapitalistica, coesistono abitudini, costumi e visioni del mondo tradizionali”.
La complessità del personaggio colta dallo scrittore italiano, che rimase impressionato dalla sua abitazione, dall’europeismo di cui trasudava. Probabilmente ne comprese lo spirito che non poteva avallare per formazione e gusti, ma in quel tempo di vigilia, Moravia fu uno dei pochi ad intuire la forza che promanava dalla “figura pubblica” non meno che da quella letteraria.
Il settimanale Epoca dedicò molte pagine corredate da inedite illustrazioni, a Mishima. L’articolo di apertura, anonimo, era intitolato “Il suicidio come strumento politico”, ma il pezzo forte era l’intervista di Giuseppe Grazzini, “Yukio Mishima una vita sbagliata”: non occorre leggere l’intonazione del pezzo per rendersi conto di quanto pregiudizio fosse intrisa. Anche l’Europeo pubblicò un ampio servizio di Guido Gerosa dal titolo “Harakiri”, con un sommario talmente esplicito da togliere il gusto di leggere il lungo articolo: “Il terribile sacrificio dello scrittore Mishima ha riproposto il tema millenario della ‘morte dei bravi’ giapponese, che risale ai troni di sangue del Medioevo nipponico e alla notte delle lunghe spade del 15 agosto ‘45”.
La stampa di sinistra sguazzò nel sangue di Mishima. Due reperti d’epoca: Paese sera e L’Unità. Il primo: “Macabro rituale suicida dello scrittore giapponese che rivoleva l’Impero”; il secondo: “Sanguinoso colpo di mano fascista a Tokyo. Scrittore assalta una caserma e fa karakiri”. Paese sera si preoccupava che il gesto potesse preludere ad un “rilancio del militarismo”. Mentre il quotidiano socialista l’Avanti, con poco senso della misura, arrivava ad ipotizzare che “l’auto-sacrificio dello scrittore-attore-drammaturgo, potrebbe fare esplodere manifestazioni violente di piazza da parte della piccola, ma agguerrita destra estrema, dall’esercito “privato” e organizzato da Mishima, il Tatenokai, poche decine di militanti estimatori dello scrittore che non avrebbero potuto far male ad una mosca al punto che l’Agenzia di Difesa offriva loro supporto per allenarsi alle falde del Monte Fuji. Il giornale socialista ebbe meno pudore dei suoi “confratelli” e titolò: “In Giappone si teme un’ondata di terrore nazionalistico”.Il Popolo, organo della Democrazia cristiana “Mishima era un ribelle di estrema destra e un giapponese” (due misfatti, il più grave dei quali era senza dubbio il secondo). Insomma, un personaggio dal quale ci si poteva attendere di tutto. Perfino che fosse antidemocratico. Un delitto che esige la condanna. E così fu. Nell’articolo “Il crisantemo, la spada e la democrazia” venne emessa una condanna senza appello. Poco democratica, molto poco cristiana.