Ci sono partite di calcio che caratterizzano epoche, segnano vite.
L’estate del 1982 mi perseguita. Bellissima e maledetta, come solo le estati sanno essere. Ognuno di noi, diceva Malraux, si porta dentro un’estate invincibile. Quella del 1982 lo fu davvero, anche se io persi quando Paolo Rossi rifilò tre gol al Brasile di Zico, Falcao e, purtroppo, anche Serginho (che giocò al posto di Careca lasciato a casa). Sì, in quel luglio di fuoco spagnolo tifavo Brasile perché per i verdeoro e il calcio danzato ho sempre avuto un forte debole, causa di gioie ma anche di tante sofferenze. E non mi si venga a dire che è una stravaganza. E’ semplicemente la bellezza del calcio. Anni dopo, nelle “notti magiche”, Napoli non tifò, forse, per l’Argentina di Diego?
Avevo quattordici anni ed eravamo venti ragazzi che formavano una meravigliosa banda di scarpa sciolta. Il prete, don Mario, ci caricò su un vecchio pulmino della Volksvagen dal colore incerto e scendemmo tutta l’Italia meridionale fino a Fuscaldo in Calabria attraverso una Salerno – Reggio Calabria che nel pensiero rinnova la paura. Una banda di ragazzi, chi più grande chi più piccolo, che parlava solo di ragazze e di pallone ma mentre delle ragazze si parlava e basta, il pallone, almeno quello, lo si praticava anche. Prendemmo l’abitazione in una casa comune su Fuscaldo alta, mentre per andare al mare ci si metteva ancora una volta in groppa al vecchio e malandato pulmino diocesano e si scendeva a Marina di Fuscaldo. I ragazzi di don Mario venivano da vari paesi come Sant’Agata dei Goti, Dugenta, Durazzano, Frasso Telesino: “Ogni nome un soldato”, diceva Domenico Rea. Il gruppo più nutrito era quello telesino e i frassesi, che non avevano mai visto il mare, erano sempre in spiaggia, da mane a sera, fino a trasformarla in una colonia, tanto che prendemmo a sfotterli dicendo che ormai Marina di Fuscaldo era Marina di Frasso Telesino.
Si giocava, si scherzava, si cresceva e si facevano anche gli esercizi spirituali ma le uniche preghiere che ricordi son quelle in cui ognuno, tranne io, pregava Gesù mio e la Madonna prima delle partite dell’Italia. Le partite si guardavano all’aperto con un televisore che non stava messo meglio del pulmino. Avevamo un’unica grande camerata con i letti a castello e le battute, il clima, le buffonate e le sbruffonerie di venti ragazzi con l’argento vivo addosso le potete immaginare facilmente. Fuori dalla camerata c’era una sorta di cortile con un muricciolo dove c’era una fontana che fungeva da doccia: tornati dal mare con sabbia e sale venivamo passati in rassegna sotto l’acqua fredda dal più grande del gruppo che aveva il compito di sorvegliare senza punire. Si chiamava Vincenzo e tutti lo chiamavano Cenzino. L’ho incontrato qualche mese fa in occasione della protesta popolare in difesa dell’ospedale Sant’Alfonso de Liguori. Sempre uguale, sembrava ora ritornato da Marina di Fuscaldo, ma son passati trentasette anni. Due vite, forse tre.
Lì, su quel muricciolo dove c’era la fontana – niente di più che un rubinetto al quale si attaccava il laccio – piazzavamo il televisore mentre tutti eravamo assiepati sotto il cielo e le stelle. In quelle condizioni ho visto Italia – Brasile. Non una partita ma la partita. Non è un caso che Piero Trellini abbia dedicato a quella storica giornata spagnola, italiana, brasiliana, mondiale e, insomma, universale un gran bel romanzo intitolato semplicemente e giustamente così: La partita. Perché per la mia generazione – la generazione del 1968, nata cioè nel 1968 e dintorni – quella è stata effettivamente la partita della vita, come per i ragazzi della generazione di mio padre, nata sotto le bombe della guerra o sotto le sofferenze del dopoguerra, la partita della vita è stata Italia – Germania. La semifinale grandiosa contro Beckenbauer che non devo neanche ricordare come finì e che portò l’Italia in finale a Città del Messico, all’Azteca, contro, guarda caso, il Brasile di Pelè. I brasiliani ne rifilarono ben quattro all’incolpevole Albertosi, mentre mio padre mi diceva ogni volta che veniva fuori l’argomento: “Perdemmo non solo perché erano più forti ma anche perché Ferruccio Valcareggi non fece giocare Rivera”. In realtà l’Abatino, come ingiustamente lo chiamava Gianni Brera, giocò. Ma dall’ottantaquattresimo. Quando si era già sul 4 a 1 per il Brasile.
Dodici anni dopo la partita si ripeté. Sì, perché in fondo la partita del 1982 fu una sorta di rivincita. Tutti tifavano Italia e io, come una nota stonata, ero lì a tifare per i brasiliani che sentivo come miei compagni di gioco. La leggenda vuole che quel Brasile di Zico e Cerezo, Falcao e Socrates, Junior ed Eder fosse più forte del Brasile di Pelé e Rivelino, Gerson e Tostao, Carlos Alberto e Clodoaldo. Ma è, appunto, una leggenda. Tuttavia, non è certo una leggenda che quel Brasile fosse più forte della nazionale di Enzo Bearzot che si caratterizzava per un eccessivo difensivismo e che aveva superato il primo turno per il rotto della cuffia grazie alla differenza reti: un gol in più rispetto nientemeno che al Camerun. Si giocò il 5 luglio a Barcellona, stadio Sarrià, e il 6 luglio il Corriere dello Sport titolò: Il Brasile siamo noi. Mentre i brasiliani sembravano diventati la banda di scarpa sciolta che si tuffava nelle acque del Tirreno alla ricerca di Colapesce.