Il 20 gennaio 1920 nasceva a Rimini il maestro Federico Fellini, uno dei registi italiani che più è stato amato all’estero dove era celebre per i suoi lavori cinematografici che hanno fatto conoscere il costume italiano nel mondo. La dolce vita (1960) dipinge un affresco a tuttotondo di quel determinato spaccato spazio-temporale con una narrazione destrutturata e libera – per il tempo che era – da quei tabù fino a quel momento mai abbattuti, in cui il regista mette in continuo dialogo il sacro con il profano attraverso i/le suoi/sue personaggi che hanno un denominatore comune che li/le caratterizza, tanto da appellarli ‘felliniani’. Indagando ancora possiamo dire che, tali personaggi, diventano una strada percorribile per una ricostruzione del sentimento del bel paese nel corso dei decenni, nonostante siano estremamente personali e filtrati da uno sguardo autobiografico che conduce a una deformazione esasperata di autobiografismo che genera quel grottesco che diviene marca stilistica nell’estetica dei lungometraggi del cineasta.
Dopo i suoi primi due film Sceicco bianco (1952), su commissione da un trattamento di Michelangelo Antonioni, e I vitelloni (1953) una sorta di ripiego perché i produttori tergiversavano per produrre altro, lavora alla regia dei due primi film pluripremiati, La strada (1954) e Le notti di Cabiria (1957), lavori che lo portano, in cima a tutti gli altri premi ricevuti, all’Oscar. Con La strada, film vincitore della statuetta d’oro come miglior film straniero, Fellini crea il film che lui stesso dichiarerà, nel corso degli anni, di girare nuovamente ogni volta, come narra Gianfranco Angelucci in Giulietta Masina (Edizioni Sabinæ): «[…] “Ho sempre fatto lo stesso film”, ripeteva con il tono di esporre una verità quasi banale, sotto gli occhi di tutti, eppure mai presa seriamente in considerazione. Voleva dire, tra il compiacimento e un po’ di tedio, che un artista non può esprimersi altrimenti».
Per quanto riguarda l’assegnazione del ruolo da protagonista di Giulietta Masina in La strada, ci sono testimonianze diverse. In entrambi i casi pare che Dino De Laurentiis volesse Silvana Mangano con la sua femminilità provocante da poco portata sullo schermo con Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis, e che, in una delle due versioni Fellini per proporre la Masina non abbia detto a De Laurentiis il nome dell’attrice che andava a proporre ma gli fece vedere un breve girato con l’attrice già calata nei panni e nel trucco del personaggio (“personaggia”, nel rispetto di genere del linguaggio) che interpretava, questo pare che lo convinse immediatamente (da una intervista a Dino De Laurentiis, in contributi extra all’interno del DVD del 2003 di La Strada). La seconda versione è che Fellini, alla notizia datagli da parte di De Laurentiis alla firma del contratto, della Mangano come protagonista, abbia lanciato e strappato con molta determinazione i fogli dell’accordo da sottoscrivere.
Tanta determinazione di Fellini convinse subito il: «tycoon napoletano», così narra Angelucci nel libro menzionato. Le due versioni potrebbero essere entrambe vere e potrebbero essersi susseguite in un lasso temporale oppure si è voluta indorare la pillola nel racconto di una delle due. Secondo il regista solo Giulietta Masina avrebbe potuto dare corpo e voce alla protagonista di questa “favola truce” e senza tempo, accompagnata da un tema musicale ‘spacca cuore’ creato da Nino Rota. A film ultimato Cabiria, all’attrice Giulietta Masina, rese i complimenti del grande Charlie Chaplin e la nomina, in Inghilterra, di ‘Female Chaplin’ (Charlot al femminile). Con La strada e Gelsomina interpretata dalla Masina inizia quell’elevazione ad Icona Sacra, voluta da Federico Fellini che si accingeva a realizzare il suo sogno irrinunciabile, e che vedremo sarà ancora più evidente in Le notti di Cabiria. Giulietta è una chiave magica clownesca che Fellini ha continuato a disegnare negli anni, avvolta da una magia che rappresentava una sorta di ideale angelico; non dimentichiamo che Fellini muove i primi passi nell’ambiente culturale romano, dopo essersi trasferito a 18 anni dalla provincia della sua Rimini, attraverso le riviste di satira, in particolare al Marc’Aurelio in cui lui era disegnatore e vignettista.
La strada è una metafora visiva, attraverso uno specchio deformante, della relazione tra Fellini e Masina, con dei tratti coincidenti tra Gelsomina e la genesi dell’attrice, che lo vede confermare quell’inclinazione all’autobiografismo che come detto lo ha continuamente contraddistinto. La narrazione essenziale di questo lungometraggio lascia intendere che tutti i film successivi siano come derivazioni di questa stessa pellicola come fossero sequel o spin off, in particolar modo per Le notti di Cabiria dove troviamo una continuità tra Gelsomina e Cabiria. A mettere in relazione le due donne, apparentemente così diverse, è il loro animo, la loro timidezza e ingenuità angelica e infantile, come le due facce della ‘femme enfant’ – la ‘donna bambina’- nell’opera di Fellini, un concentrato di purezza e santità che trova in Giulietta Masina l’interprete ideale tanto da sovrapporsi alla sua immagine pubblica. L’iconicità dei due personaggi femminili va osservata soprattutto da un punto di vista sacro come il regista ha voluto, un preludio a quella simbologia religiosa che sarà marca stilistica in tutti i suoi film. Fellini crea attraverso la messa in scena dei forti richiami alle Icone Sacre evocando le immagini dei Santi delle chiese ortodosse (come scrive Jean-Max Méjean in Giulietta Masina la – Muse de Fellini, di D. Delouche, J.-M. Méjean e Z. Valdés, La tour verte).
I foulards e le sciarpe usati come copricapo su Cabiria evocano nell’immagine estetica il velo della Madonna, le spalle asimmetriche del malmesso cappotto di Gelsomina, inquadrato da dietro, la croce come simbolo cristologico, le pose in ginocchio a mani giunte in un montaggio alternato con le immagini Sacre di Madonne e Croci portate in processione o adorate dai pellegrini al Santuario sono un continuo riferimento al Sacro. Troviamo poi non più simbolici ma espliciti riferimenti come per l’inquadratura estrapolata dalla sequenza della processione in La strada, in cui il significato sfocia nell’esplicitazione del simulacro attraverso una scritta che non lascia dubbi. La trasfigurazione a immagine sacra delle due donne protagoniste in La strada e Le notti di Cabiria, avviene anche attraverso l’uso del maquillage in sinergia con il lavoro apportato dai due direttori della fotografia Otello Martelli e Aldo Tonti che nel bianco e nero giocano accentuando il contrasto tra il pallido della carne e lo scuro delle ombre per esaltare al meglio la figura della Masina, come se emanasse luce interiore alla maniera di una vetrata figurativa (Angelucci, 2021). Mi voglio soffermare sul ricordare quanto sia importante che i due operati, quello del truccatore e quello del direttore della fotografia producano effetti sinergici e quanto sia fondamentale che guardino nella stessa direzione e abbiano gli stessi obiettivi poiché ciascuno ha, potenzialmente, la facoltà di indirizzare diversamente, dall’obiettivo posto, il lavoro dell’altro, allo stesso modo lavorando in sinergia il risultato è potenziato. Non sono solo le ombre e la luce ben utilizzati a dare significato al sentimento sensibile delle due “ personagge” ma tanti altri ‘trucchi’: l’uso di contorni scuri che bordano l’occhio per dare durezza o infinita tristezza, sguardi eterei di occhi che si perdono nella vita come sul volto senza alcun contrasto con l’incarnato, sopracciglia clownesche che esprimono dolcezza d’animo per Gelsomina, che non sono solo caratterizzazione neanche per Cabiria ma significano l’evoluzione del suo stato d’animo, ammorbidendosi nelle forma, sempre meno ascendente, man mano che l’ascesa avviene interiormente alla personaggia e che la sua immagine si eleva al Sacro. Caetano Veloso nel 1987 ha dedicato un intero album alla coppia più famosa del cinema italiano, in un brano dal titolo Giulietta Masina racconta proprio di un occhio del quale si perdono i contorni, definendolo nebbioso, della famosa lacrima nera dell’ultima sequenza di Le notti di Cabiria. Un momento molto suggestivo in cui il trucco assume una forte valenza significativa è proprio in questa sequenza finale in Le notti di Cabiria. Lo sguardo in macchina della protagonista rompe la quarta parete, non in modo dissacrante come avverrà non pochi anni dopo in A bout de souffle di Godard, e neanche come interrogativo rivolto all’interiorità dello spettatore dopo la lunga corsa verso il mare e i suoi significati metaforici che bagnano letteralmente Antoine Doinel in Les 400 coups di François Truffaut, lo fa in un modo dolce e candido ma allo stesso tempo pieno di consapevolezza, in un congedo intriso come da uno stato di grazia, forse, quella stessa grazia che viene offerta a Marcello Mastroianni da ‘Paolina’ e che per incapacità di comunicazione non riuscirà a cogliere in La dolce vita, (1960). L’elevazione spirituale raggiunta non verrà scalfita dal dolore della vita simbolicamente espresso nella maschera con la lacrima nera che scende sul volto sereno e che le fa assumere un aspetto clownesco evocatore di Gelsomina come a voler comunicare che le bassezze altrui e le proprie sconfitte non potranno che essere la sublimazione proprio di quella sacralità raggiunta, a volte, in grado di portare sulla strada della redenzione chi vi si approccia.