
La cultura presidenzialista annovera un precursore il cui pensiero conservatore si fonde con istanze modernizzatici sul piano istituzionale. Carlo Costamagna (1881-1965), giurista di grande valore e larghe vedute, in effetti, pur non avendo raccolto in un’opera organica la sua critica alla Costituzione repubblicana, ha indubbiamente offerto un apporto qualificato ed importante nell’evidenziare le distorsioni, gli equivoci, le incongruenze e l’eccesso di compromessi che caratterizzarono i lavori dei costituenti. A sessantant’anni dal varo della Carta costituzionale, anche a fronte dell’indiscutibile invecchiamento del quale risente, le sue “ragioni” risultano tanto più moderne se si tine conto che i rilievi che egli formulava sono diventati materia del dibattito corrente. Come intellettuale di stampo conservatore (ma nella fattispecie l’aggettivo ha un significato paradossalmente “rivoluzionario”), Costamagna era assillato dalla divaricazione che, al di là delle enunciazioni di principio contenute nei primi articoli, la Costituzione sanciva tra oligarchie e popolo, tra sovranità dello Stato e partiti politici, e scorgeva nella contrapposizione il “vizio d’origine” che avrebbe gravato sulle istituzioni politiche. Cosa che puntualmente si è verificata e che oggi tutti lamentano.
Costamagna si servì di una piccola ma assai autorevole tribuna dalla quale muove i propri appunti alla nascente Costituzione: il giornale “Rivolta ideale”, organo del Fronte degli italiani. Il suo punto di vista era chiarissimo: la Carta si configurava come il prodotto della “Repubblica dei partiti” legittimata non dal consenso popolare, ma dalla forza più o meno ricattatoria degli apparati politici usciti vittoriosi dalla guerra civile. Per lui la Costituzione nasceva su un presupposto completamente errato e giuridicamente inaccettabile: il partitismo contrapposto all’idea di “bene comune” e snaturante l’unità nazionale. Esso, in altre parole, incarnava i “nuovi egoismi” rispondenti a logiche estranee agli interessi dei cittadini e della nazione; non a caso, faceva notare, che i partiti maggiori non erano radicati nell’identità nazionale, ma rispondevano a logiche “straniere”: guelfe il partito cattolico dei democratici cristiani, sovietizzanti quello comunista.
Riflettendo su come la Repubblica non poteva essere considerata la “Repubblica degli italiani”, ma dei partiti, e precisamente dei “partiti antifascisti”, Costamagna osservava che nel disegno di progetto costituzionale mancava “qualsiasi concetto positivo di organizzazione del Popolo Italiano”. Dal suo punto di vista, il progetto era dominato da due criteri sviluppatisi attorno all’unica idea negativa del “diritto dei partiti”: il partitismo e la faziosità. “Non ha precedenti – osservava – nel diritto dei cosiddetti ‘governi liberi’, il formale riconoscimento che il progetto compie del diritto dei partiti sotto l’obliqua formula della dichiarazione di un diritto individuale al partito politico: ‘Tutti i cittadini hanno il diritto di organizzarsi liberamente in partiti per concorrere, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale’ (art. 49 della Costituzione)”. Circostanza che gli faceva concludere come l’indirizzo generale politico dovrebbe essere la risultante esclusiva dell’accordo dei partiti senz’avvertire che in tal mondo si annulla ogni azione unitaria nazionale. Era proprio questo lo scopo dei costituenti i quali intendevano escludere dalle decisioni chiunque non rientrasse nelle logiche che avevano determinato il progetto costituzionale stesso. E perciò le scelte non potevano che essere prese esclusivamente dalle segreterie politiche dei partiti incuranti spesso perfino del mandato che il popolo, astrattamente inteso, aveva conferito al partito individuato con il suo libero voto.
In pratica, diceva Costamagna, si assiste ad un curioso balletto, singolare e poco dignitoso perfino: in alcune parti, segnatamente quella dei principii fondamentali, la Costituzione esalta i diritti degli individui, ma di fatto, al momento di regolamentare l’applicazione di questi diritti, consegna tutto il potere nelle mani dei partiti, dei loro capi, degli apparati burocratici mediante l’applicazione della “democrazia indiretta”.
Ed osservava: “Tutti i cittadini, nominalmente. Senza distinzione di sesso, appena maggiorenni, sono elettori (così recitava l’art. nella stesura dei lavori preparatori, poi modificato nella stesura finale). Ma alle cariche pubbliche, a cominciare da quella di deputato, sono i partiti che designano i titolari, facendone i servi della propria volontà. Non al corpo elettorale, ma ai ‘deputati dei partiti’ spetta la nomina dello stesso presidente della Repubblica, che pur dovrebbe essere il Capo dello Stato, l’espressione vivente dell’unità e della continuità nazionale. Evidentemente il governo presidenziale nordamericano non sembra abbastanza democratico ai costituenti antifascisti. Sono i partiti che debbono intendersi sull’iomo che dovrà ricoprire la carica suprema e questi solo ai partiti dovrà essere debitore del posto, non già re senza corona, ma umile ufficiale di scritture, incaricato di omologare le transazioni dei partiti stessi, quali gli verrebbero presentate dal Primo Ministro, anch’esso ombra di un governo, in funzione di un Consiglio dei Ministri, composto dai delegati delle irresponsabili direzioni dei partiti deliberanti ‘privatamente’ fuori del Parlamento”.
La scelta di compo, in favore del presidenzialismo e della preferenza popolare nella scelta del “decisore”, da parte di Costamagna è chiara in queste parole. Anche perché paventava che i governi di coalizione, come quelli presieduti da De Gasperi, sarebbero stati sempre e comunque connotati dall’instabilità e dalla variabilità degli umori dei partiti e delle correnti da cui erano dilaniati. “Il principio del parlamentarismo – argomentava -, sancito coll’obbligo espresso fatto a ogni Governo della Repubblica di conseguire, appena costituito, un voto di fiducia dal Parlamento, non è che la maschera del principio del partitismo, autorizzato non disciplinato dal progetto (costituzionale, ndr.). Nella realtà il governo di un popolo oppresso e straziato, come il nostro, dal fenomeno dei partiti di massa, sarebbe condannato all’impotenza, alla nullaggine. (…) E senza pudore per il giudizio della Storia, il progetto nella solennità quasi sacra di un testo costituzionale, sotto il titolo ‘Disposizioni transitorie e finali’, verrebbe sancito, documento inaudito, la faida di partito a fondamento della Repubblica democratica italiana. Fascismo e monarchia cause perpetue di indegnità civile”. Le ragioni del partitismo, dunque, dominarono i lavori della Costituente che elaborò una Carta inficiata da due difetti: il pregiudiziale rifiuto del presidenzialismo che avrebbe sottratto ai partiti potere e controllo sulla società civile; lo spirito di vendetta nei confronti di una parte tutt’altro che esigua del popolo italiano. Insomma, la Costituzione, secondo Costamagna, era il prodotto degli interessi politici e “privati” di una parte degli italiani in opposizione ad un’altra. Su questo presupposto la Repubblica s’è rivelata dannosa allo spirito unitario nazionale.

Da queste annotazioni nasceva il richiamo di Costamagna ad un ideale “fronte degli italiani” perché ingaggiasse una vera e propria “lotta per lo Stato” da opporre a tutte le concezioni antistatuali ispiranti i partiti impegnati nell’elaborazione della Costituzione. “Non vi è più traccia – scriveva nel luglio 1947 – nel nostro costume politico della legalità parlamentare, qualificata dalla spontaneità e dalla variabilità delle maggioranze e quindi dall’indipendenza del singolo deputato o, insomma, dal rispetto della personalità umana. E poiché sul diritto dei partiti, esprimenti incompatibili concezioni del mondo in funzione di civiltà opposte e l’un contro l’altro sospinti dal furore della conquista integrale del potere, non può sorgere l’unità di un qualsiasi ordine morale e giuridico, ecco che la lotta per lo Stato si disegna ormai nelle condizioni di una spaventosa anarchia, dalla quale non si può prevedere se, quando e come il nostro Popolo riuscirà a trarsi fuori”.
Assumendo una propria specifica individualità, i partiti si ponevano e si pongono quali effettivi soggetti della sovranità pubblica in possesso di grandi strumenti operativi, tanto da presentarsi come contarltare alla “forma Stato” classicamente intese. Nella formazione degli organi pubblici, infatti, i partiti sostituivano e sostituiscono la partecipazione della loro delegazione (“lottizzazione”) al principio rappresentativo popolare, fino a ridurre la funzione del Parlamento al semplice e degradato compito di dare un crisma di legalità alle decisioni adottatedai rispettivi esecutivi, al di fuori, e spesso contro di esso. Si è, dunque, in presenza di una concorrenza di dittature di parte in antagonismo reciproco: la poliarchia. Un fenomeno che nei sessant’anni trascorsi dal varo della Costituzione repubblicana si è andato via via sempre più acuendo fino a determinare l’aperto conflitto tra poteri del Stato ed organismi costituzionalmente rilevanti con il risultato di aver determinato la crisi del sistema istituizionale nel suo complesso, coinvolgendo, in maniera diversa, perfino gli enti locali, e favorendo il ricorso continuo alla Corte costituzionale ormai quasi paralizzata nel tentativo di dirimere tutte le controversie. La poliarchia è peggiore della partitocrazia, ma da essa discende: Costamagna lo aveva previsto con largissimo anticipo attribuendole la responsabilità della decadenza giuridica, sociale, civile e morale dell’Italia.
Il partitismo che agli albori della Costituzione già si configurava come partitocrazia (il primo ad utilizzare questo neologismo fu Giuseppe Maranini negli articoli poi raccolti nel volume Il tiranno senza volto), non era il suo solo “vizio d’origine”, per dirla con Costantino Mortati e Vezio Crisafulli. Ce n’era un altro altrettanto grave da considerarlo addirittura “assurdo”. Infatti, con brillante spirito polemico, ma con fondato giudizio giuridico-politico, Costamagna osservava che nessuna forza partitica, nessun rappresentante del nuovo ordine democratico si era premurato di informare gli italiani circa il tipo di Repubblica che si stava costruendo e, di conseguenza, una volta varato l’impianto costituzionale, si era ben guardato dal chiedere ai cittadini di pronunciarsi in merito. Al popolo “sovrano”, in altri termini, venne impedito di compiere l’unico, autentico atto sovrano che avale a qualificare, oltre che a legittimare, anche in termini dottrinari, una democrazia: esprimersi, cioè, liberamente sul modello di reggimento politico nel quale avrebbe voluto riconoscersi ed operare. Infatti, discorrere di Repubblica senza aggettivarla, qualificarla, significa ben poco considerando che di Repubbliche ne esistono diverse e tutt’altro che coincidenti le une con le altre. Il popolo italiano, tenendo pure conto del dibattito sviluppatosi in senso alla Costituente, si sarebbe espresso per quella presidenziale o parlamentare? A questo interrogativo nessun o mai potrà dare una risposta.
Soltanto nell’ipotesi di una tale deliberazione popolare, sosteneva Costamagna, la Repubblica non sarebbe nata “viziata”. E aggiungeva che la mancata illuminazione preventiva della volontà popolare avrebbe imposto quantomeno il passaggio del testo costituzionale a referendum popolare. Una questione tutt’altro che marginale, come abbiamo sperimento, posto che la Repubblica presidenziale risponde all’esigenza di assicurare l’unità e la continuità dell’indirizzo politico espresso dai cittadini e delegato ad un rappresentante; la Repubblica parlamentare, fondata sul sistema dei partiti, nella migliore delle ipotesi dà luogo a coalizioni instabili e litigiose che sono la negazione del governo stesso per sua natura incline alla coesione.
Governare, infatti, non significa soltanto gestire, ma anche e soprattutto decidere. Decide, magari in casi estremi, sullo “stato d’eccezione”, come diceva Carl Schmitt; di certo il compromesso, la tergiversazione nell’assumere impegni, il ricatto cui si dedicano con particolare voluttà le coalizioni partitocratiche sono caratteristiche che poco hanno a che fare con l’arte di governare. Costamagna scorgeva nel presidenzialismo lo strumento più idoneo per assicurare governi stabili e duraturi al Paese; il presidente eletto a suffragio universale era per lui il “custode della legalità” e quindi della Costituzione del popolo non dei partiti: un re senza corona, ma dotato di autentici poteri decisori sui quali il Parlamento esercitava un controllo ferreo regolato da leggi che bilanciavano i diversi e complementari poteri.
Curiosamente nel nome del “popolo sovrano” si decise di espropriare il popolo della sovranità di darsi un assetto politico-istituzionale. E gli venne sottratta la facoltà di approvare o bocciare il testo che un folto gruppo di saggi, eletto peraltro dal popolo con sistema rigidamente proporzionale, aveva approntato.”Lo stesso progetto della Costituzione – osservava Costamagna -, che pure ammette il referendum sulla materia legislativa ordinaria e dello Stato e delle regioni, lo ha in modo tassativo escluso per l’atto costituzionale, prevedendone la promulgazione da parte del Capo provvisorio dello Stato, entro cinque giorni dalla sua approvazione da parte dell’Assemblea costituente. In Francia, forse per suggestione del movim,ento che si è definito del Rassemblement populaire del generale De Gaulle, o per maggior rispetto a Gian Giacomo Rousseau, si è interpellata la volontà popolare sul testo della Costituzione. In Italia, invece, i partiti costituenti vogliono seguire gli esempi delle Cortes spagnole del 1931, su cui si sono del resto uniformati anche in quasi tutte le disposizioni organiche e nel disegno generale. Voglia Iddio che le due esperienze non abbiano lo stesso destino!”
E, approfondendo le ragioni del suo dissenso, Costamagna aggiungeva: “Non occorre essere dei feticisti della sovranità popolare per capire che la democrazia tipo, la ‘vera’ democrazia, la democrazia ‘pura’, sarebbe soltanto quella diretta e che essa troverebbe ragioni di manifestarsi soprattutto sull’atto di fondazione dello Stato. Ma i politici del sistema parlamentare hanno sempre osteggiato e referendum e iniziativa popolare di legislazione, istituti specifici di tale democrazia; tanto che la nostra letteratura sull’argomento, da Arcangelo Ghisleri a Giuseppe Rensi ha creduto di poterli presentare come correttivi indispensabili contro il malcostume per cui la classe dirigente dei parlamentari riuscirà a dominare il corpo elettorale. Esattamente si è potuto riconoscere che la parola ‘sovranità popolare’ non conviene, né in linea di fatto, né in linea di diritto, alla moderna teoria democratica, dato e non concesso che democrazia significa qualche cosa di più e di meglio che il diritto dei partiti”.
Di spunti per una polemica fondata e serrata contro la partitocrazia ed in favore del presidenzialismo nel pensiero e nell’opera di Costamagna ce ne sono a josa. Attualizzarli significa porsi il problema della crisi delle istituzioni in relazione all’esaurimento della funzione di una Carta costituzionale, il cui impianto risulta a dir poco obsoleto. E, di converso, nulla ci appare oggi più moderno della critica di un conservatore misconosciuto che alla fine della sua vita, a metà degli anni Sessanta, aveva già preconizzato quel che inevitabilmente sarebbe accaduto. A sei decenni dalla sua morte siamo alle prese con gli stessi problemi che all’epoca si finse di non vedere e si esorcizzarono demonizzando coloro che prospettavano nuovi assetti politici fondati su un’idea di democrazia che oggi appare perfino salvifica nelle condizioni in cui ci troviamo.