• 21 Novembre 2024

 A vent’anni dalla morte la lezione dello storico pisano: gli uomini del Medioevo avevano la consapevolezza di essere imperfetti e il coraggio di costruire per il futuro. Il segreto è il cristianesimo.

«Chi iniziava a costruire le cattedrali aveva la certezza che né lui né i suoi figli le avrebbero viste completate. Edificavano, ma per i posteri. Chi, oggi, pianta più un noce? Chi, oggi, ha il senso del futuro?». Un’osservazione che da sola basterebbe a smontare la persistente “leggenda nera” sul Medioevo, tanto più se a dirla era qualcuno che di Medioevo non solo se ne intendeva, ma lo insegnava da una cattedra universitaria. Sono parole di Marco Tangheroni, docente di Storia medioevale nelle università di Cagliari, di Sassari e di Pisa, sua città natale, riportate in Inchiesta sul cristianesimo di Vittorio Messori (Ares, Milano 2022). Messori nel 1987 aveva incontrato lo storico pisano, che aveva preso carta e penna per protestare contro quel «Medio Evo di cartapesta» messo in scena dal film Il nome della rosa. Un «falso clamoroso» contro il quale Tangheroni protestava come storico e «come cristiano che vede insultato un periodo glorioso della storia della Chiesa e, con essa, dell’intera cultura europea».

Marco Tangheroni moriva esattamente vent’anni fa, l’11 febbraio 2004, a soli 58 anni. In molti hanno scorto un disegno della Provvidenza nella coincidenza tra la sua morte e la memoria liturgica della Madonna di Lourdes, venerata come Salute degli infermi, alla luce della di quella che lui stesso aveva definito «una lunghissima e drammatica storia sanitaria», che però non gli aveva impedito un fecondo lavoro di ricerca e insegnamento, una brillante carriera accademica, l’impegno culturale e politico, e più in generale una vita piena, illuminata dalla fede che aveva riscoperto insieme alla malattia. «La notte di Capodanno del 1969 mi sono ritrovato in coma; quando ne sono uscito, le speranze di sopravvivenza erano limitate. (…) Ecco, dunque, che il problema che rinviavo mi si è presentato con urgenza (…). Da allora non ho fatto che confermarmi nella certezza che il Vangelo ha ragione, che il cristianesimo è la vera speranza per l’uomo». Decisivo fu poi, nel 1970, l’incontro con Giovanni Cantoni e quindi la militanza in Alleanza Cattolica di cui Tangheroni fu reggente regionale per la Toscana, nonché uno dei principali punti di riferimento, svolgendo un prezioso apostolato culturale.

Nel cristianesimo aveva scoperto «qualcosa che non c’è nelle altre fedi e che spinge l’uomo a migliorare», «un ottimismo, una vitalità che sostiene anche le invenzioni tecniche e il loro utilizzo ai fini pratici», come dimostra anche il dinamismo da cui sorgono la «rivoluzione commerciale» e la «rivoluzione nautica» dei secoli XI-XII – cui aveva dedicato anni di insegnamento condensati nel volume Commercio e navigazione nel Medioevo (Laterza, Roma-Bari 1996) – che ci restituiscono un’immagine ben diversa dei cosiddetti “secoli oscuri”. Al contrario, «vengano qui, sulla piazza pisana dei Miracoli, tra cattedrale, battistero, torre pendente, camposanto», disse a Messori, «e mi dicano se questo è “buio”. Ce ne fossero, oggi, di “tenebre” così!». Dalla leggenda nera alla leggenda rosa, allora? Tutt’altro: l’uomo medievale è ben consapevole di essere «un impasto di grazia e di peccato: perfettibile certo, ma non sino al punto di trasformarsi in angelo. La società, dunque, bisogna costruirla con dei mattoni imperfetti. E questo mette al riparo quei secoli dalle utopie disastrose che contrassegnano la modernità».

Tangheroni faceva suo l’aforisma di Marc Bloch: «Il bravo storico è come l’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda» – una preda, beninteso, cui si accostava con un misto di curiosità e pietas, che ne spiega anche la molteplicità di interessi su cui lui stesso faceva dell’autoironia definendosi «un pillaccherone della storia». Se i suoi studi erano principalmente incentrati sul Mediterraneo (ma non solo), si può dire che il suo spazio di ricerca fosse l’uomo stesso. Anzi, non l’uomo in astratto, ma gli uomini concreti. Accadeva così che tra un canto e l’altro della Commedia dantesca, che conosceva pressoché a memoria e che faceva da filo conduttore delle sue lezioni di storia medievale, si fermasse su un nome – Cacciaguida o Mosca de’ Lamberti o chiunque altro – che per lui non era un mero oggetto di studio, bensì «una persona, che ha amato, sofferto, tradito, pianto, lottato: un uomo come noi» (Cristianità, modernità, rivoluzione. Appunti di uno storico tra mestiere e impegno civico-culturale, Sugarco, Milano 2009).

A vent’anni di distanza quella di Tangheroni è una lezione che non riguarda solo gli addetti ai lavori. Lo si comprende particolarmente rileggendo il volumetto, pubblicato postumo, intitolato Della storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila (Sugarco, Milano 2008) grazie al quale anche chi non lo ha conosciuto potrà cogliere «gli echi di quelle parole, di quella voce non più udita (…) infrangendo un silenzio ormai distante», come scriveva la curatrice e sua collaboratrice Cecilia Iannella. Utilissime ai cultori di storia, queste pagine offrono efficaci antidoti anche a vari modi errati di interpretare il presente: come l’illusione «di aver trovato la clavis aurea, la spiegazione unica e decisiva» o quella «forma più sofisticata di semplificazione» che è «la “dietrologia” ad ogni costo»; salvando sempre «la libertà delle azioni e delle scelte degli uomini» e lasciando «il giusto spazio al caso» nel leggere gli eventi passati – nonché quelli attuali, imparando «l’educazione alla complessità dell’analisi del reale», nella consapevolezza che «la storia non offre la risposta decisiva alle domande essenziali sull’uomo» e che il fine della storia è al di là di essa, senza dover forzare i fatti in cerca di arbitrarie (o ideologiche) conferme di un “senso della Storia”.

Ed è “al di là della storia” che conviene concludere questo breve profilo di Marco Tangheroni, accennando – con un po’ di pudore – alla Vita che ora sta vivendo, mentre le sue spoglie mortali riposano nel cimitero di Asciano Pisano, dove c’è chi va a chiedergli di intercedere da lassù, come ha fatto anche chi scrive: chissà che il professore non sia tuttora disposto a venire incontro alle domande, talora ingenue, della matricola di allora? In fondo, un amico comune raccontava che non sono pochi a ritenere che dalla profonda umanità che lo caratterizzava, dalla fede vissuta e testimoniata trasparisse qualcosa “in più”… Qui ci fermiamo per non cadere nella facile agiografia, lasciando che a rompere gli indugi sia Franco Cardini, che di Tangheroni fu collega e amico di lunga data, e che due anni fa raccontava di di avergli chiesto aiuto per delle piccole disavventure vissute proprio a Pisa. «Mi sono rivolto anche a Marco: lo faccio di tanto in tanto, anche perché qualcuno mi ha assicurato che funziona. Non sarà santo, però…». Nulla di eclatante: un paio di occhiali smarriti e una preziosa valigetta dimenticata. Però li ha ritrovati entrambi.

(Da “La nuova bussola quotidiana”)