Trascorrono i giorni dalla disastrosa alluvione che, nella notte tra il 29 e il 30 ottobre 2024, ha devastato diverse aree della regione di Valencia, eppure il conteggio delle vittime continua a salire: gli ultimi dati parlano di almeno 217 morti, ma le ricerche sono ancora in corso.
Molteplici sono i fattori che hanno contribuito al disastro: il ritardo del governo di Valencia nel comunicare l’allarme alla popolazione, la forte urbanizzazione dell’area, l’alterazione della traiettoria del fiume Turia, modificato negli anni ’50 per proteggere la città di Valencia da nuove alluvioni dopo quella devastante del 1956, ma rivelatosi oggi più che inefficace.
Alla luce di queste tragiche notizie, viene da chiedersi quali siano i rischi a cui è attualmente esposta l’Italia e quale ne sia l’entità. Possiamo dire, senza troppi dubbi, che l’Italia non ne è immune; anzi, il dissesto idrogeologico è uno dei problemi più gravi che affliggono il nostro Paese, causato da fattori di diversa natura, alcuni geologici, altri legati all’azione umana.
Partiamo col dire che l’Italia ha una conformazione geologica complessa: il territorio italiano è variegato e include montagne, colline, pianure e coste. Tuttavia, molte delle aree montuose e collinari sono composte da rocce fragili e friabili, come arenarie e argille, che tendono a degradarsi rapidamente. Inoltre, l’Italia è ricca di corsi d’acqua a flusso variabile, influenzati dalla stagionalità delle piogge e dalle pendenze elevate, soprattutto nelle regioni montuose e appenniniche.
Non sono però solo le caratteristiche meteo-climatiche, topografiche, morfologiche e geologiche del nostro territorio a provocare fenomeni di dissesto idrogeologico. Tra i fattori determinanti ci sono anche quelli legati all’azione umana: tra questi, l’elevata urbanizzazione. L’espansione delle città e delle infrastrutture ha spesso coinvolto aree a rischio, aumentando l’impermeabilizzazione del suolo e alterando il naturale deflusso delle acque. La deforestazione, inoltre, riduce la stabilità del terreno e favorisce l’erosione, aumentando la possibilità di frane e alluvioni. Molti fiumi italiani sono stati arginati o deviati, ma queste opere non sempre sono sufficienti a contenere piene improvvise o eventi estremi, aggravati dai cambiamenti climatici. Non bisogna poi dimenticare l’impatto dei cambiamenti climatici, che sta determinando un aumento di frane, colate detritiche e piene rapide e improvvise.
«L’incremento della pericolosità da frane è legato al cambiamento climatico – conferma Giuseppe Travìa, dirigente della divisione “Valutazione, prevenzione, mitigazione e monitoraggio integrato del rischio idrogeologico” del Ministero della Transizione Ecologica – e all’innalzamento delle temperature medie», che genera anche una pericolosa imprevedibilità nelle variazioni del regime pluviometrico (la distribuzione delle precipitazioni nel corso dell’anno in una determinata area geografica). Infatti, gli eventi di pioggia sono meno frequenti ma si verificano con maggiore intensità e concentrazione.
Qual è dunque, soppesate adeguatamente le cause coinvolte, il rischio a cui è esposta l’Italia? I dati riportati dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ente pubblico italiano che si occupa di tutela ambientale, ricerca scientifica e monitoraggio del territorio) nel rapporto Dissesto idrogeologico in Italia disegnano una situazione drammatica nel nostro Paese: il 94% dei comuni italiani è ritenuto a rischio per frane, alluvioni o erosione costiera. Il 18,4% del territorio nazionale è classificato a maggiore pericolosità per frane e alluvioni. 841 chilometri di litorali sono soggetti a erosione; in generale, 1,3 milioni di abitanti risultano in pericolo a causa di frane e 6,8 milioni di abitanti per le alluvioni. Le regioni più a rischio sono Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia e Liguria.
Sono 26.386 km² le aree considerate a elevata e molto elevata pericolosità di frana (8,7%), concentrate soprattutto lungo l’arco alpino e l’Appennino, in particolare in Toscana, Emilia-Romagna, Valle d’Aosta, Campania, Abruzzo, Sardegna, Piemonte, Lombardia e nella Provincia Autonoma di Trento.
Le regioni con il numero maggiore di abitanti a rischio elevato di frane sono Campania, Toscana, Liguria, Sicilia, Lazio ed Emilia-Romagna.
Gli edifici a rischio frane in Italia sono oltre 1,8 milioni, mentre i beni culturali in pericolo sono più di 38 mila. Inoltre, le industrie e i servizi ubicati in aree ad alta pericolosità da frana sono oltre 84 mila, con circa 220 mila addetti esposti al rischio.
Come si è scelto di affrontare la fragilità del nostro Paese? In realtà, a eccezione del Regio Decreto 3267 del 30 dicembre 1923 (quasi visionario), focalizzato sul vincolo idrogeologico, sulla gestione dei boschi e sulla sistemazione idraulico-forestale dei bacini montani, in Italia si è verificato un forte ritardo nella promulgazione di norme che affrontassero adeguatamente fenomeni naturali come frane e alluvioni nella pianificazione territoriale e urbanistica. La Legge 183 del 18 maggio 1989 rappresenta infatti la prima norma organica per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo.
Successivamente, il decreto-legge 279 del 12 ottobre 2000 ha stabilito interventi urgenti per le aree a rischio idrogeologico molto elevato, di notevole importanza a seguito dei gravi danni verificatisi nel comune di Soverato, in Calabria, in quel periodo.
Infine, è rilevante il decreto legislativo 49 del 23 febbraio 2010, che recepisce la direttiva 2007/60/CE. Questa norma disciplina le attività di valutazione e gestione dei rischi di alluvioni, al fine di ridurre le conseguenze negative per la salute umana, il territorio, i beni, l’ambiente, il patrimonio culturale e le attività economiche e sociali. Nel decreto, è importante il riferimento ai compiti delle istituzioni: “Le Regioni, in coordinamento tra loro e con il Dipartimento nazionale della Protezione Civile, provvedono, per il distretto idrografico di riferimento, alla predisposizione e all’attuazione del sistema di allertamento nazionale, statale e regionale, per il rischio idraulico ai fini di protezione civile”.
A chi spetta intervenire in caso di frane e alluvioni sul nostro territorio? A chiarire questo aspetto è la Protezione Civile nazionale. La gestione di queste emergenze è prevalentemente locale: spetta alle Regioni e alle Province Autonome diramare le allerte, mentre spetta ai sindaci, insieme ai responsabili sul territorio, attivare i piani comunali di protezione civile, informare i cittadini sulle situazioni di rischio e decidere le azioni da intraprendere per tutelare la popolazione. Se questi fenomeni coinvolgono più aree e il Comune non riesce a gestirli autonomamente, può intervenire la Protezione Civile regionale. Infine, con la dichiarazione dello stato di emergenza, il compito passa alla Protezione Civile nazionale.
Un aspetto fondamentale, ancor più delle modalità di intervento, riguarda la prevenzione del rischio, strettamente legata ai riferimenti legislativi accennati. Anche con dati affidabili alla mano, riscontriamo spesso incuria nel tener conto di queste informazioni. Per intenderci, la fruibilità di un territorio classificato come franoso risulta condizionata, e il fatto che ciò possa limitare lo sviluppo edilizio rappresenta un problema per un settore economico del Paese. Quindi, il fatto che il settore edile possa essere vincolato, perché un’area è stata indicata come soggetta a fenomeni franosi, costituisce un vincolo che, paradossalmente, spesso si cerca di evitare.
È dunque necessario costituire una nuova coscienza territoriale, che permetta di valorizzare e tutelare il territorio, per comprendere come il rispetto delle aree naturali non sia un semplice vezzo, quasi alla moda, ma una necessità imprescindibile, talvolta per la stessa sopravvivenza degli abitanti.