Milano,13 febbraio 1912, una giornata primaverile. Tutto il parentado accoglie la neonata Antonia Pozzi, così gracile da temere per la sua sopravvivenza. La madre è la contessina Lina Cavagna Sangiuliani; il padre il principe del foro Roberto Pozzi. Le viene dato il nome del nonno materno ma al momento del battesimo fra le navate della Basilica di San Babila risuonano i suoi nomi (tutti parentali): Antonia, Rosa, Elisa, Maria, Giovanna, Emma. Nonna Maria, donna assai colta, è cresciuta accanto al nonno materno, Tommaso Grossi, Quel Tommaso Grossi! Antonia, dunque, appartiene a un ambiente raffinato e culturalmente ricco. Nonostante le origini nobili e l’alta borghesia in cui trascorre l’infanzia, frequenterà scuole statali e il Liceo Classico Manzoni per poi iscriversi a Lettere e Filosofia alla Statale di Milano. Nel 1935, con una tesi su Flaubert, si laurea con lode. Niente sembra arrestare il cammino della giovane donna, curiosa di tutto, intelligente e di ampie vedute. È letteralmente rapita dalle lezioni dei suoi professori. Vittorio Sereni, Remo Cantoni, per citarne solo alcuni, le aprono orizzonti culturali straordinari. Ma a forgiarla, al liceo, è stato Antonio Maria Cervi. È affascinata dallo sconfinato sapere del maestro, dalla passione con cui lo trasmette e dalla dedizione ai suoi allievi. Non è un docente “amicone” degli studenti: severissimo, ha un profilo altamente morale. Antonia condivide molti interessi con lui: l‘amore per la poesia, per l’arte e per il bello; il desiderio di conoscere; un’indole sensibile e la passione per la montagna. L’affascinazione verso una figura così carismatica, assai frequente tra i banchi di scuola, nella Pozzi diverrà amore. Un amore che si illuderà di soffocare vivendo altre storie. Quella con il professor Cervi, infatti, era fortemente contrastata dal padre che, convinto di fare il bene della figlia, la spedì in Inghilterra, non appena il docente ne chiese la mano. Ma il cuore di Antonia, dedita anche all’arte fotografica, riportandone riconosciuti successi, apparteneva a Cervi. Forse perché negli occhi del professore aveva catturato un dolore celato agli altri e che provava anche lei. Nonostante le intenzioni di dedicarsi alla narrativa, con un romanzo che ripercorresse le vicende delle figure femminili della sua famiglia, la vena artistica di Antonia Pozzi si esplicita nella poesia. A diciassette anni scrive: Oh, le parole prigioniere/che battono battono/furiosamente/alla porta dell’anima.
Ampia la produzione artistica nella sua breve e tormentata esistenza: diari, lettere, saggi critici, traduzioni, scatti che immortalano l’anima del soggetto fotografato. Tuttavia solo le diverse raccolte poetiche ci consentono di carpire la personalità di Antonia, che continua a ispirare e a essere attuale. Pensiamo solo al concetto di poesia da Lei direttamente espresso in una lettera del 1933 indirizzata all’amico poeta Tullio Gandez: «La poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci rimbalza nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella celeste vastità del mare. La poesia è una catarsi del dolore, come l’immensità della morte è una catarsi della vita.» È vero, sono parole dettate dal un’epoca travagliata. Ma sarebbero diverse, scritte oggi? La Pozzi si carica del dolore del mondo e ne rimane schiacciata. Unica consolazione, le amicizie e la montagna. In particolare si innamora di Pasturo, sede delle vacanze estive nella antica villa di famiglia. Pasturo, luogo manzoniano, si trova in Valsassina, ai piedi delle Grigne. Frequenti le scalate, che rappresentano, un’ascesa spirituale, un modo per accostarsi al creato ed entrare in comunione con esso. La montagna la ispira. Continuamente.
Occupano come immense donne/la sera:/sul petto raccolte le mani di pietra/fissan sbocchi di strade, tacendo/l’infinita speranza di un ritorno. /Mute in grembo maturano figli/all’assente. (Lo chiamaron vele/laggiù – o battaglie. Indi azzurra e rossa/parve loro la terra). Ora a un franare/di passi sulle ghiaie/grandi trasalgon nelle spalle. Il cielo/batte in un sussulto le sue ciglia bianche. /Madri. […]Pasturo, 9 settembre 1937 (Le montagne)
Mi ritrovo/nell’aria che si leva/puntuale al meriggio/e volge foglie e rami/alla montagna. /Potessero così/sollevarsi/i miei pensieri un poco ogni giorno:/non credessi mai/spenti gli aneliti/nel mio cuore. /8 giugno 1935 (Brezza)
Quando lo sguardo si posa sulla natura è impossibile non cogliere il riflesso dell’animo della poetessa, il ripiegamento su sé stessa, mentre il futuro le sembra “una lama d’acciaio”: Stanotte un sussultante cielo/malato di nuvole nere/acuisce a sprazzi vividi/il mio desiderio insonne/e lo fa duro e lucente/come una lama d’acciaio. (Lampi)
Troppo pessimista? Forse, ma sicuramente sulla sua indole, malinconica, non avvezza all’euforia, pesò anche il giudizio negativo sulle sue composizioni da parte di alcuni intellettuali che le suggeriscono di “scrivere di meno”. Eppure, non demorde: “Ho ricominciato a scrivere versi e non vorrei; è un brutto segno, ed è troppo presto. Avevo bisogno di un più lungo silenzio per combinare qualche cosa di buono” (Lettera, 1935) Invece Maria Corti, scrittrice e critica letteraria, dopo averla conosciuta, ne tracciò un bel ritratto: «Il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi. Era un’ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo più dei suoi simili». Non era propizio, d’altronde, neppure il clima politico del tempo. Sconvolta dalla promulgazione delle leggi razziali, che si abbatterono su amici a Lei cari, Antonia avverte tutto l’orrore di questa pagina nera calata sull’intera Europa. La sfiducia nel cambiamento della natura umana, assetata di potere, il difficile rapporto con il padre e con la fede, rendono più cupe le sue giornate e più acerbo il male oscuro che le dilania l’anima. Neppure Dio può aiutarla, quel Dio negato durante gli anni liceali, malgrado la posizione contraria del professor Cervi. Gli scrive, infatti, «Anche se io non riuscirò mai a vedere nel vostro Cristo più che l’uomo, pure saprò farmi buona, saprò camminare, saprò crearmi dentro sempre più il mio dio: e non cercherò di conoscerlo, perché conoscerlo è rimpicciolirlo. Sarà un camminare con una meta canora dentro, che non si può vedere ma senza posa si sente; un vivere la vita senza abbandoni, creandosene dentro, ad ogni istante, gli scopi.» Evidente la riluttanza ad accettare la fede per dovere, ma anche il bisogno di viverla come autentica condizione esistenziale. Sente la presenza di Dio, come Infinito, quando scala le montagne: “Dio non è lontano.” (“Poesia che mi guardi”). Innegabile l’afflato con la divinità nel momento in cui ammira il creato sulla vetta del monte. Come non pensare al Petrarca? Una condizione di sublime grazia trasferita nella pagina del Diario del 10 settembre 1937, a Pasturo: “Pensare d’esser sepolta qui non è nemmeno morire: è un tornare alle radici”. E così accadrà. Un anno dopo, il 3 dicembre 1938 Antonia Pozzi pone fine alla sua vita. In quella fredda sera, inforca la bici, compagna di tante escursioni, attraversa Milano spruzzata di neve. Raggiunge un luogo sacro, l’Abbazia di Chiaravalle. Si adagia in un fossato, ingerisce una gran quantità di barbiturici e si addormenta. Per sempre. Aveva ventisei anni. Ma il suo calvario non è finito. Il padre, malgrado le parole lasciate dalla figlia in preda a “ebbro strazio”, non accetta lo “scandalo” del suicidio e fa circolare la notizia che sia morta di polmonite. Non solo. Si appropria dei quaderni di Antonia, zeppi di poesie, ancora oggi inedite, e le manipola a suo piacimento. Oggi Antonia riposa nel cimitero di Pasturo. Dal suo monumento funebre guarda le amate Grigne.