• 21 Novembre 2024
Cultura

Un modo per onorare pienamente Giovanni Gentile, a  ottant’anni dalla sua uccisione, avvenuta, per mano partigiana, il 15 aprile 1944, è riconoscere l’attualità, il valore universale della sua opera. Altri parleranno dei “contesti” in cui fu perpetrato l’omicidio del Filosofo. Del perverso intreccio tra violenza e “giustificazionismo” politico-ideologico, di marca comunista. Della volontà omicida finalizzata a troncare l’appello gentiliano dal Campidoglio alla pacificazione tra fascisti e anti-fascisti, che da Mosca Togliatti aveva attaccato duramente. Delle denigrazioni postume nei confronti del più grande intellettuale italiano del ‘900 e della rimozione della sua memoria nell’Italia del dopoguerra.

A noi preme – proprio in ragione della “modernità” dell’opera gentiliana – ricordare l’estremo sviluppo del suo pensiero, suggello di una visione spirituale e di una sensibilità sociale che soprattutto oggi, in un tempo segnato da “un cambiamento d’epoca” , mostrano  il suo grande valore, sintetizzato nell’immagine/Idea simbolo dell’”Umanesimo del Lavoro”.

Gentile dà il titolo Umanesimo del lavoro al paragrafo 7 del capitolo XI dell’opera Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica (1946). In essa Gentile   riconosce all’attività umana, compresa quella manuale e non creativa, di essere connotata dalla medesima dignità fino ad allora attribuita alla prassi intellettuale: ogni uomo acquisisce, alla luce di tale concezione, la specificità dell’artifex. Tale esaltazione gentiliana del lavoro e del lavoratore è anche una critica della categoria moderna della rappresentanza, stigmatizzata per la sua artificiosità, a fronte di  una rappresentanza organica attraverso l’organizzazione corporativa dello Stato, che consente  un immedesimarsi reciproco di individuo, società civile e Stato.

La sua è una visione metapolitica, che va ben oltre le contingenze, del suo tempo e del nostro. Oltre l’idea dell’homo oeconomicus, oltre l’egoismo (di classe e non solo).  Da qui il richiamo a un più elevato e più umano ideale, “a una forma di vivere sociale dove tutta si possa liberamente spiegare la forza dello spirito, e che cominci dunque dal far guerra a ogni sorta d’individualismo astratto”. È l’organicismo comunitario gentiliano: “In fondo all’Io c’è un Noi; che è la comunità a cui egli  appartiene, e che è la base della sua spirituale esistenza, e parla per sua bocca, sente col suo cuore, pensa col suo cervello”.

L’Umanesimo del lavoro rappresenta la sintesi di queste nuove aspettative, in grado di superare il puro e semplice umanesimo della cultura, accettando la sfida della modernità, segnata dalla creazione della  grande industria e dalla “avanzata del lavoratore nella scena della grande storia”.

Nessun determinismo sia chiaro. Con Gentile si allarga, andando alle sue fondamenta, il concetto moderno della cultura, “là dove l’uomo è contatto della natura, e lavora”.

E’ una presa di coscienza di portata universale, in grado di porre la nuova visione del mondo, con al centro il valore del lavoro, finalmente nobilitato nel profondo, in ragione di una nuova, più ampia assunzione di responsabilità, laddove l’uomo “lavora dispiegando cioè quella stessa attività del pensiero, onde nell’arte, nella letteratura, nell’erudizione, nella filosofia, l’uomo via via pensando pone e risolve i problemi in cui si viene annodando la sua esistenza in atto. Lavora il contadino, lavora l’artigiano, e il maestro d’arte, lavora l’artista, il letterato, il filosofo. Via via la materia con cui, lavorando, l’uomo si deve cimentare, si alleggerisce e quasi si smaterializza; e lo spirito per tal modo si affranca e si libera nell’aer suo, fuori dello spazio e del tempo; ma la materia è già vinta da quando la zappa dissoda la terra, infrange la gleba e l’associa al conseguimento del fine dell’uomo”.

E’ una Rivoluzione spirituale e materiale che – usiamo una terminologia a noi contemporanea – dà al Lavoro una nuova centralità e con essa anche al Lavoratore, finalmente “faber fortunae suae, anzi faber sui ipsius”.

A partire da questa “visione” cresce e si rafforza una nuova concretezza sociale, lontana dall’utopismo borghese e dal classismo socialista, dall’idea dello “Stato del cittadino”, immaginato dalla Rivoluzione dell’89, ma ben salda nell’idea del lavoratore – scrive Gentile – “quale esso è, con i suoi interessi differenziati secondo le naturali categorie che a mano a mano si vengono costituendo. Perché il cittadino non è l’astratto uomo; né l’uomo della ‘classe dirigente’ – perché più colta o più ricca, né l’uomo che sapendo leggere e scrivere ha in mano lo strumento di una illimitata comunicazione spirituale con tutti gli altri uomini. L’uomo reale, che conta, è l’uomo che lavora, e secondo il suo lavoro vale quello che vale. Perché è vero che il lavoro è lavoro, e secondo il suo lavoro qualitativamente e quantitativamente differenziato l’uomo vale quel che vale.”

Idee e visioni con cui ancora oggi possiamo/dobbiamo confrontarci, grazie alla preziosa opera di valorizzazione dell’opera gentiliana, alimentata – a partire dagli Anni Quaranta – dall’attivismo di una giovane e dinamica pattuglia intellettuale, in cui spiccavano i nomi di Gaetano Rasi, Primo Siena, Vittorio Vettori, Ernesto Massi, Vito Panunzio, Gianni Maria Pozzo, Antonio Fede, Hervé A. Cavallera.

Di questo lavorio ha dato una puntuale e documentatissima ricostruzione Rodolfo Sideri (Con Mussolini e oltre. Giovanni Gentile da Marx alla destra postfascista, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2020), che ci riconsegna, a partire dal suo complesso itinerario culturale, l’immagine del filosofo militante e teorico di una rivoluzione permanente, la cui opera – come ha scritto Hervè A. Cavallera – in tempi “in cui occorre davvero rifondare la vita politica, staccandola dai legacci dell’utile e dell’economico, diventa un aspetto essenziale per la stessa sopravvivenza della civiltà occidentale all’interno della quale gli Italiani hanno svolto da sempre ruoli fondamentali”.

A ottant’anni dal suo assassinio, Gentile continua a parlare alle nostre coscienze di italiani inquieti, sulla via di una ricostruzione civile e sociale, capace come Egli ha  indicato di dare nuova centralità e nobiltà al Lavoro e ai lavoratori. Per questo va ricordato e  nuovamente studiato. Senza chiusure preconcette, per cogliere il valore e l’attualità della Sua opera.


Autore

Giornalista e scrittore, a partire dalla seconda metà degli Anni Settanta ha collaborato alle principali pubblicazioni dell’area anticonformista. Dal 1990 al 2000 ha fatto parte della redazione del mensile “Pagine Libere”, specializzandosi in tematiche economiche e sociali, con particolare attenzione alla dottrina partecipativa. Scrittore “eclettico” ha al suo attivo diversi saggi dedicati al sindacalismo rivoluzionario e al moderno movimento delle idee. Tra gli ultimi libri: L’Idea partecipativa dalla A alla Z. Principi, norme, protagonisti (2020), La Rivoluzione 4.0 (2022). E’ direttore responsabile del trimestrale “Partecipazione”. Dal 2017 al 2022 è stato componente del CdA della Fondazione Palazzo Ducale di Genova. Dal marzo 2023 fa parte del CdA del MEI (Museo dell’ Emigrazione Italiana).