La crisi economica ci ha costretti a fare i conti con ciò che è essenziale e con ciò che non lo è. È pur vero che alcune rinunce sono state, e sempre più lo saranno, dolorose in termini di appagamento individuale e di gratificazione collettiva. Ma pensarci come fruitori e non più soltanto come consumatori, non è detto che sia un male. Beninteso, nessuno è talmente folle da scambiare la sobrietà con la povertà: chi intende muoversi su questa strada si esercita in una ignobile demagogia i cui effetti non è difficile individuare in una depressione generale con l’inevitabile conseguenza di far regredire la società a uno stadio quasi barbaro. È possibile muoversi, però, in tempi di magra lungo il percorso dell’austerità dei costumi e dei consumi, dello stile di vita insomma, dopo aver a lungo indugiato attorno a un narcisistico compiacimento di noi stessi nutrito dalla certezza di poter contare su inesauribili risorse, fosse pure a scapito dell’ambiente e dei rapporti umani.
Sono quasi tutti concordi – economisti, sociologi, studiosi dei mutamenti sociali e individuali, osservatori delle tendenze – che il consumismo e gli effetti a esso legati siano da considerarsi relegati in un’epoca che difficilmente rivivrà. Aggiungono che è bene attrezzarsi psicologicamente, soprattutto, ai tempi nuovi se non si vuole restare prigionieri di un passato che, a dirla con un minimo di onestà intellettuale, è stato attraversato più da ombre che da luci. E, forse, proprio per questo siamo finiti così male.
Mi ha colpito un dato nelle analisi sugli effetti della crisi: quello alimentare. Un terzo del cibo prodotto nel mondo viene sprecato e solo in Italia questa perdita vale ben 9 miliardi di euro all’anno. Ma perché gettiamo via così tanto cibo? Cerchiamo di fare chiarezza sul problema dello spreco alimentare in Italia e vediamo in che modo possiamo contribuire a risolvere questa situazione. Parlando di spreco alimentare ci si riferisce a tutto quel cibo ancora commestibile che viene gettato nella spazzatura o, in alternativa, al cibo che sarebbe ancora commestibile se non lo avessimo fatto scadere. La maggior parte del cibo che viene sprecato in Italia proviene dalle nostre famiglie: infatti, analizzandolo, scopriamo che il 42% degli sprechi totali è di origine domestica, mentre quelli della ristorazione è il 14% e quelli della distribuzione – quindi della vendita – appena il 5%. La grande fetta che resta è un 39% legato alla produzione.
Le nostre case sono la principale fonte di spreco alimentare e si stima che ogni cittadino sprechi circa 524,1 g di cibo alla settimana. Se preferite vedere questo numero in un altro modo, parliamo di 1000 container di cibo sprecato ogni settimana solo in Italia. È questa una stima basata su un campione rappresentativo di popolazione, ed essendo una media ovviamente ci sarà chi non butta via quasi niente e chi supera un chilo di spreco. Quindi non prendiamolo come dato esatto al 100% ma come buona approssimazione per capire il fenomeno.
La seconda grande fonte di spreco è quella legata alla produzione del cibo. In questa fetta rientra la raccolta di prodotti agricoli, l’allevamento e la macellazione di bestiame, la lavorazione dei prodotti e tutti i problemi tecnici che possono avvenire in queste fasi. Questo forse è uno tra i settori più difficili da abbattere ed è un modo estremamente ampio, proprio perché ciascun prodotto ha una propria filiera e quindi, i propri scarti.
una situazione disastrosa – e in parte lo è – ma in molti altri Paesi la situazione è ancora peggiore. Infatti se andiamo a vedere lo spreco medio settimanale, la Germania consuma il 32% in più rispetto a noi e gli Stati Uniti addirittura il 98% in più, cioè quasi il doppio di noi. Al contrario ci sono Paesi che fanno meglio di noi, come ad esempio la Francia – con il 6% in meno – o il Giappone con il 46% in meno.
A livello internazionale non stiamo peggio di altri Paesi, ma le cifre non sono tuttavia confortanti. Lo spreco, infatti, comporta una perdita economica: 9 miliardi di euro, come dicevamo sono una cifra ragguardevole per l’Italia, 700 miliardi possiamo definirli una catastrofe. Non solo economica, ma anche sociale, civile e morale.
Lo stesso dicasi per ciò che concerne l’abbigliamento, i gadget elettronici, i prodotti di bellezza e via seguitando. Si dice che la contrazione della produzione, di ogni tipo, farebbe aumentare la disoccupazione. Ma questo problema potrebbe essere affrontato e magari risolto immaginando l’avviamento a mestieri oggi desueti per giovani che attendono un primo impiego, per esempio nell’agricoltura, nella cura del paesaggio, nell’ artigianato che in Italia è praticamente morto.
Sicuramente non è un male se l’eccesso di materialismo pratico, rappresentato dal consumismo compulsivo, ci mette davanti al nostro destino di sperperatori di risorse e di avidi distruttori della natura e della nostra stessa anima in rapporto con la bellezza, la cultura, la riflessione sul tempo, la caducità di ciò che come surrogato dovrebbe riempire le nostre esistenze non avendo altro a cui rivolgerci se non alla devastante abbondanza del superfluo tanto per immergerci in qualcosa che dia un senso all’attraversamento della vita.
Indipendentemente dalle considerazioni che pur sarebbero (e sono) legittime sul divario insanabile tra aree del Pianeta ricchissime e altre (assai più vaste) poverissime, immagino che sia venuto il tempo di regolare i conti con noi stessi riscoprendo il piacere di vivere senza strafare e di non morire ricoperti delle inutilità agghiaccianti di cui sono ricolmi i nostri armadi e le nostre case le quali, lungi dall’essere oggettivamente belle e confortevoli, sono perlopiù magazzini in cui ammassiamo di tutto soltanto perché sollecitati da un impulso insano al possesso.
La riscoperta del piacere delle piccole cose, delle cose cioè che danno gioia autentica, è perfino possibile che contribuisca a riconnetterci a una visione austera, ma non per questo grigia o mortifera, dell’esistenza. Consapevole di far parte di una minoranza e di attirarmi le critiche degli
“sviluppisti”, ritengo che la cultura consumista abbia devastato individui, famiglie e comunità. L’invidia sociale, ampiamente analizzata anche dai morfologi della storia del secolo scorso, ha il suo fondamento nella corruzione del sentimento di solidarietà che è stato a fondamento della civiltà occidentale almeno fino all’avvento della rivoluzione industriale. Da questa sono scaturite le guerricciole che, assumendo man mano dimensioni imponenti, hanno legittimato teorie come quelle formulate da Marx e dai suoi epigoni. Ma questo è un altro discorso.
Nelle circostanze attuali lo smarrimento di fronte alle oscene cattedrali del consumo nelle quali si trova di tutto e si scopre, tornando a casa, che si è acquistato l’irrilevante, l’inutile, l’inessenziale, è frustrante almeno quanto l’impossibilità di attingere all’offerta del superfluo che l’industria della comunicazione sollecita con imponente dispendio di mezzi. La gioia di poter finalmente scegliere, limitandosi a incursioni dove si sa che cosa trovare, e non essere scelti dall’ammiccante proposta più o meno esplicita veicolata da spregiudicati mezzi pubblicitari, dovrebbe rendere il consumatore nuovamente arbitro di se stesso, responsabile dei suoi gusti e delle sue tendenze, protagonista di un mercato “libero”, dunque sottratto dai condizionamenti espliciti o occulti, e soprattutto invogliarlo a preferire la qualità piuttosto che la quantità.
Tutti abbiamo girovagato nei freddi ipermercati dove dagli scaffali vengono sollecitazioni che muovono la mano dell’acquirente quasi mai cosciente del gesto che compie. Cosa si porta via se non l’illusione di un’effimera abbondanza tutt’altro che necessaria?
Confondere la recessione con l’austerità sarebbe naturalmente un errore. La prima incide non soltanto sui consumi superflui, ma soprattutto sulla vita pubblica di ciascuno di noi e sulla mercede di cui abbiamo bisogno oltre che sui servizi essenziali e irrinunciabili. La seconda è uno stile di vita che, per quanto sollecitata dalle contingenze, non soltanto non è dannosa, ma, se la si sa valutare ed accettare nella sua essenza più profonda, produce una piccola rivoluzione interiore che non è necessariamente un male coincidendo con la decrescita delle illusioni consumistiche. L’austerità, in altri termini, correttamente intesa, dovrebbe farci riscoprire la semplicità delle piccole cose ed immetterci in una dimensione più naturale e comunitaria, nella quale perfino la lentezza diventa un valore mentre finora è stata considerata alla stregua di un handicap.
Soprattutto lo spreco delle risorse spirituali dovrebbe essere limitato a vantaggio di una maggiore consapevolezza di noi stessi nell’ambito di un universo complesso che è stato maledettamente ingiusto e crudele ridurre a una semplice “cosa” dalla quale suggere il massimo del piacere effimero, cedendo alle lusinghe delle agenzie di consumo e alle culture della materialità e del relativismo per le quali il massimo delle passioni a cui votarsi dovrebbe essere l’accaparramento dei beni.
Dalla “produzione” di avidità a quella di prodigalità e di frugalità il passo è indubbiamente molto lungo. Ma non è detto che non lo si possa fare. Dalla crisi si esce abbracciando una rivoluzione sottile destinata a durare e a cambiare il nostro modo di vita che nessuno può immaginare peggiore di quello che abbiamo conosciuto, venerato, santificato negli ultimi trent’anni.
Il solo fatto di riappropriarci del nostro destino è un fattore di crescita. La sola crescita alla quale dovremmo essere sensibili.