• 4 Luglio 2024
Editoriale

Il dibattito, sull’autonomia differenziata, nonostante l’iter legislativo concluso, sembra non cessare, fosse solo per alimentare uno scenario antiriformista e poco risolutivo. Ma è opportuno un riepilogo legislativo, sia a livello nazionale che europeo.  

L’articolazione dell’assetto delle autonomie regionali nazionali, dal 2000 in poi, indebolendo i poteri dello Stato centrale,  senza  prevedere una riforma costituzionale chiaramente ed esplicitamente federale, comunque ha teso a cristallizzare le scelte politiche, rimodulando le stesse su tre livelli. Ovvero le regioni a statuto speciale, le regioni ordinarie, e le regioni che chiedono una autonomia differenziata.

In particolare, le regioni che nel 2009 chiesero la reale applicazione dell’autonomia, cercando un’intesa con il governo centrale, su materie specifiche, non videro nell’immediato una soddisfacente ed esaustiva risposta, edulcorata dal varo della legge delega sul federalismo fiscale. Ma già nel 2011, la limitazione renziana delle potestà legislative delle regioni ordinarie, per evitare un surplus normativo, destrutturò l’intesa suddetta e ampliò, i poteri dello Stato centrale, riducendo le materie di competenza regionale a una subordinazione di tutela giuridica centralizzata.

La decadenza del Referendum Costituzionale 2016, o riforma Renzi, di fatto apre una nuova escalation di dibattito politico sul regionalismo, che si conclude con i referendum consultivi, in Lombardia e in Veneto, e con il trasferimento a dette regioni di svariate competenze e l’assegnazione di fondi integrati fungibili alle medesime. Ciò rese l’apertura politica al residuo fiscale, con un’intesa precipua Stato-Regione, le materie in specie furono diverse e differenziate, e finanziate per competenze, ovviamente in netto contrasto con le evidenti indisposizioni costituzionali, in tema di federalismo fiscale.

Questo fu il primo passo per un esplicito divario di sperequazione di ricchezza, nel Paese Italia, ancora incapace di concepirsi come Nazione e con spinte riformiste, antifederaliste, ma le opposizioni riuscirono a demotivare l’attuazione del federalismo differenziato.

Con i pentastellati in primis e poi con il governo Conte la maglia del regionalismo differenziato ha ritrovato una sua identità con attuazione di nuove istanze, sia al nord che al sud, una vera ed improvvisa apertura irrazionale, con accordi di attuazione, per una maggiore autonomia delle regioni richiedenti, e un nuovo capitolo sull’autonomia differenziata, lo scenario implementativo fu dominato dalla regione Campania, che si spinse oltre l’art.116 della Costituzione, con richieste che amplificavano in maniera esponenziale i poteri regionali nelle varie materie oggetto di applicazione.

Nuovo giro di boa fu la legge del ministro Francesco Boccia, che riportava tutte le regioni ordinarie, ad una deriva di autonomia e di una pluralistica attuazione dell’art.116. Più che un’autonomia differenziata Boccia propose un’autonomia trasversale, con una formazione perimetrale adattata ai vari parametri economici di ogni regione richiedente, che si proponeva una perequazione impossibile e poco uniforme a livello nazionale, i presupposti parametrici glielo impedivano, vediamo che i tentativi arco costituzionali con chiare spinte di regionalismo ad impronta differenziata hanno comunque evaso il passo di uniformare eventuali residui fiscali, incapaci di capire l’impossibilità di una reale autonomia se non a marchio indifferenziato.

La struttura così destrutturata, di un percorso legislativo giunto fino alla prima Bozza Calderoli, approvata in tutta azione ministeriale, suscitò altresì profonde critiche, per una maggioranza non ancora pronta per una autonomia differenziata, servile ad un principio di riqualificazione dei poteri regionali, e di un’implementazione economica riformista per sua autonoma formazione.

Ma se il regionalismo italiano, concepisce tentativi di applicazioni destrutturati e destrutturanti, senza perseguire una logica di perequazione fiscale, volta ad avere delle ricadute nazionali, ma solo regionali, per formazione riformista federale, ne consegue, che questo percorso fu parimenti   inserito, in ruolo comprimario che ebbero le regioni in Europa, a causa di una decadenza che ebbe lo Stato centrale nei rapporti con l’Europa, sospinta da una sinistra incerta e poco riformista, infatti, il ruolo e nonché il tema del regionalismo subì un ulteriore integrazione nel processo di integrazione europea.

La mancanza, evidente di uno Stato Nazione, ha innescato da subito in Europa, un processo di integrazione regionale, non dimentichiamo nel 1975, il Fondo europeo per lo sviluppo regionale, Quattro regioni europee, e non quattro Stati, Baden- Wurttemberg, Rhone-Alpes, Lombardia, Catalogna, sottoscrissero un Memorandum di cooperazione unitario, al fine di cooperare economicamente in un processo integrato europeo, e fu l’inizio di una collaborazione significativa, di una regione Stato con proprie capacità federali e autonomia differenziata,” il primo riconoscimento di un sistema federale”(Wallace).

Inoltre, il Comitato Europeo delle Regioni, fu il secondo atto,1994, dopo il Trattato di Maastricht, 1993, a carattere consultivo, che vide una nuova crescita del sistema regione, in materia di sanità pubblica, con una forte coesione economica e sociale, tale da impattare in nuove reti europee, promuovendo una politica con nuovi ambiti economici, professionale, di formazione e di istruzione, il tutto revisionato prospetticamente verso un rimodulato ordinamento federale europeo.

Questo rinnovato scenario europeo, rese possibile alle regioni, di partecipare rafforzando il loro ruolo, con rinnovate rendite di posizione, nello Stato nazionale e sovranazionale, al punto tale che in Europa si configurarono e si istituirono nuovi uffici, pro-regionali, al fine di promuovere affari per gli assessorati, con funzioni lobbystiche e così canalizzare nuove competitività. Tuttavia, le trans-regionalità acquisite, facenti funzioni statutarie e di Stato, permisero la creazione di associazionismi paralleli sulla base anche delle diversità europee, ma accomunatesi da interessi reciproci, grazie alle varie affinità culturali, la nascita di questi gruppi confederali, vide una grande partecipazione per lo più frontaliera tra le regioni europee, e periferica, in ambiti culturali ed economici disparati.                      

In altre parole, l’integrazione regionale, a vocazione differenziata, diffusasi in Europa, consentì un sano processo di regionalizzazione, che spinse la formazione dei fondi di coesione, aventi e facenti funzioni di obbiettivi, di primaria importanza, con attuazione trasversale in diverse regioni europee, ma non dimentichiamo che detta regionalizzazione, si è accelerata grazie, alla moneta unica, che di fatto ha sottratto sovranità monetaria agli Stati nazionali.

Questa formazione, di coesione interregionale (con scopo intergovernativo), ha comunque creato delle zone euro, di marginalizzazione, prevalentemente geopoliticamente in territori, di collocazione geografica più a sud in Europa. Il fenomeno, della marginalizzazione, è assolutamente concreto ed evidenzia indici di decrescita notevoli, un esempio lo sono regioni come la Catalogna, che ha subito maggiori pressioni di una fiscalità, troppo esosa, al punto da spingere la regione ad un tentativo di indipendenza. Ma non sempre l’influsso, resta negativo, le regioni europee con una massima regionalizzazione differenziata in ambito europeo, sono quelle con una maggiore integrazione nelle filiere produttive europee, e denotano un flusso maggiore all’esportazione, vedi il sistema Lombardia. Quindi senza approfondire gli effetti benefici di una diffusa regionalizzazione strutturata sovranazionale, e di un regionalismo differenziato, possiamo cogliere, che da un’analisi preliminare e da notevoli indicatori economici che la sperequazione regionale è un elemento diffuso, nella nostra nazione, fonti certe infatti evidenziano una netta dicotomia naturale geopoliticamente, ed incentivata da un percorso, oserei definire, poco integrativo, per motivi diseconomici, di alcune regioni del sud, che non hanno consentito alle stesse di porsi in un trend di crescita polarizzante nell’integrazione regionale europea.

Il divario  economico e di presunta crescita, tra il nord e il sud dell’Italia, denota un’Italia, con aree marginalizzate, spodestate di una struttura solida, produttivamente, che fatica ad essere volano di integrazione europea, con margini di sperequazione notevoli, e dati analitici, evidenti, come il basso Pil pro-capite, la poca formazione professionale, la disoccupazione o le scarse opportunità di lavoro, l’alta propensione migratoria, scarse infrastrutture, che sottolineano come una legge sull’autonomia differenziata, può essere un ulteriore elemento di distacco, di divisione da un sistema nord efficiente e un sistema sud che ha inteso nel tempo spingere sul pedale degli sprechi e delle risorse finanziarie mai impiegate efficientemente. Oppure può essere un nuovo volano per una ambiziosa differenziazione produttiva diversa e differente, in ambiti divergenti all’economia del nord.

La legge, sull’autonomia differenziata, potrebbe, dunque, ulteriormente accentuare un divario, già visibile e    storicamente radicato che prende le mosse da una radicalizzazione di un regionalismo differenziato, sia in termini nazionali che di strutture sovranazionali, che trae origini giuridicamente dal regionalismo europeo e creare una dicotomia, già esistente, accentuandola tra due aree regionali macroeconomiche?

L’attuale, legge Calderoli, pone in evidenza un chiaro divario sull’equità del trattamento finanziario, per specifici settori, che hanno una ricaduta sociale e di benessere nazionale, come il settore sanitario, per esempio, poiché indirettamente, l’elusione dell’art.  4 e 6 relativi al trasferimento di funzioni, e di risorse economiche indispensabili all’attuazione, di detti settori e al loro regolare espletamento, invoca un disciplinare sperequativo, e l’art.10, pertinente all’attuazione di un sistema di perequazione finanziaria, le cui finalità sono perseguite, dal relativo art. 119, comma V, Costituzione, tende ad un esproprio federale, in buona sostanza, o propriamente una violazione di quanto asserito nell’art.53 della Costituzione. Perché il gettito erariale di imposta che matura in un’area regionale, viene sottratto e va a implementare le regioni più virtuose, generando diseconomie retributive e di servizi nelle regioni meno virtuose.

La responsabilità, di questo testo, consiste appunto, non nella possibilità di reperire nuove risorse regionali, né una vera autonomia tributaria, né una trasparenza finanziaria, ma una subordinazione, delle potenzialità, di alcune regioni, causa una politica senza visione economica strategica, alle differenti territorialità regionali, a carico delle regioni con autonomia differenziata. La loro riscossione, secondo un principio di territorialità, viene meno, a danno del benessere del cittadino e dei servizi che ad egli necessitano indipendentemente dall’appartenenza regionale.

In altri termini, siamo alla negazione della solidarietà, a favore delle collettività regionali meno produttive, perché a parità di reddito e di imposta, erariale, i cittadini residenti in aree, con minore capacità fiscale rischiano di avere minori servizi, rispetto ad aree, più produttive e più ricche, che ricevono maggiori risorse e possono impiegare nuove eccellenze professionali, a redditi maggiorie maggiori competenze. Si ha così il gioco della competitività, in una sorta di mercato libero.  La produttività minore di una regione, si inserisce in un impianto logico di una legge, che la penalizza, un sovvertimento non solo del più puro federalismo fiscale, e un approccio legislativo che tende ad una geo ingegneria fiscale, avulsa da ogni logica di integrazione europea.

Ma i fondi di coesione, con concettualizzazione europea, possono rigenerare risorse, insieme ad un PNRR, per una rinnovata implementazione delle macroaree del sud, già inserite in una Zes di qualità, con una visione di sviluppo, strategica, e un aggancio al partenariato intrinseco del Piano Mattei, ergo, il sud, si incanala in un nuovo risorgimento economico, con una precipua puntualizzazione, di sviluppo, a prescindere dai Lep.  

La parità di trattamento dei cittadini e l’equità fiscale, rientrano in una misura razionale di Fiscal Federalism, di cui la legge sull’autonomia differenziata, si fa portavoce, in parte, senza dilungarci ulteriormente nella dimensione interna della legge, e nella legittimità dei pesi soppressi, però una compensazione delle differenze, fiscali, con una pressione, assegnata paritetica, denota, ripetiamo a parità di reddito, comunque una delocalizzazione sperequativa eccessiva. Ma la delocalizzazione a formazione fiscale può e deve essere recuperata, perché un piano riformista, senza eccessi di sovranismo locali, e senza critiche polarizzanti della riforma, può indurre, ad un Italia, non a due marce.

Qualora l’applicazione dell’autonomia differenziata sia richiesta e applicata, sia nei settori della sanità, scuola, e sicurezza, ovvero imponendo un residuo fiscale da recuperare, per macro-temi, e competenze che risentono di una carenza di rispetto applicativo nel sud, con una integrazione legislativa, della legge, si potrebbe creare in tutte le regioni italiane una autonomia per competenza tematica di sviluppo, assecondando le vocazioni naturali e attitudinali di ognuna.      

E se da sempre assistiamo all’immigrazione sanitaria, o talvolta viaggio della speranza per casi sanitari estremi, o all’immigrazione professionale, questi fenomeni non potrebbero divenire la normalità, se perseguiamo invece l’eccellenza del territorio di riferimento. L’anomalia legislativa,  in una nazione, dove la visione politica, dichiaratasi riformista, non deve essere, divisiva, ma costruttiva, a seconda, delle necessità del territorio, che si implementa nel lungo periodo, per molteplici indotti economici, perché, lo sviluppo delle politiche del mezzogiorno per una maggiore integrazione del regionalismo europeo, non deve creare discrepanze di residui fiscali, e nemmeno una forte marginalizzazione, epocale, il sud, e il centro hanno potenzialità economiche di primaria rilevanza, da rigenerare con scopi evolutivi differenziati.

La differenziazione se opportunamente differenziata, senza margini di marginalizzazione con opportuni recuperi, può essere il perno per una ristrutturazione di un sud dalle molteplici vocazioni, con una economia non più assistita e solidarizzata, ma con fondi che devono servire concretamente ad un nuovo sviluppo, che realmente risollevano le sorti di una macroregione con eccellenze significative.

La Campania deve inserirsi in questa prospettiva, senza invocare aiuti e assistenzialismo, a scopo meramente politico, per creare risorse che andrebbero ad alimentare la corruzione e forme malavitose, ogni impegno di coesione deve contrattualmente essere predestinato e trovare il suo impegno, con una rendicontazione trasparente. Inoltre, il sud deve mostrare la sua capacità competitiva, con una nuova leva strategica ed economica per contribuire, al benessere dei suoi territori, l’assistenzialismo di una politica senza visione, ha indotto allo svuotamento, di vaste aree che da generazioni, solevano essere produttive, creato cattedrali, in ogni ambito, desertificato settori altamente produttivi, ora credo che il cambiamento di rotta, richieda un cambiamento di mentalità politica.    

Autore

Economista, Bio-economista, web master di eu-bioeconomia, ricercatrice Unicas, autrice e ideatrice di numerosi lavori scientifici in ambito internazionale. Esperta di marketing. Saggista, studiosa di geopolitica e di sociopolitica. È autrice dei saggi “Il paradosso della Monarchia” e di “Europa Nazione”. Ha in preparazione altri due saggi sull’identità e sulla politica europee.