Che cosa accadrebbe al nostro dibattito pubblico se il dualismo Nord-Sud cessasse di essere questione politica per trasformarsi in nodo geografico? L’interrogativo è più che mai attuale ora che la Lega sta rinculando verso la ridotta padana dopo essere stata costretta a rinfoderare le ambizioni di leadership nazionale sulla coalizione post-berlusconiana coltivate per oltre un lustro da Matteo Salvini. Una ritirata che lascia il campo del centrodestra quasi irriconoscibile rispetto al passato, come ben testimoniano, da un lato, la cieca ostinazione con cui il Carroccio sta ottenendo l’approvazione a marce forzate del disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata con il dichiarato obiettivo di farne un vessillo di ritrovata vitalità da sventolare in vista delle elezioni europee e, dall’altro, la sconcertante arrendevolezza con cui Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno reagito al suo diktat scambiando, evidentemente, per prova di forza la forza della disperazione.
Eppure è proprio qui, nel combinato disposto tra le riposte ambizioni salviniane di leadership nazionale e il colpo di coda leghista sul regionalismo rafforzato, che la coalizione di governo sembra aver ceduto alla tentazione di opporre un mero tatticismo laddove, almeno a livello parlamentare, le sarebbe risultata preziosa una strategia più inclusiva, con il rischio ora di dare una risposta geografica all’antica questione politica del divario territoriale territoriale. Ma procediamo con ordine: privo di una visione organica e unitaria con cui affrontare la sfida dell’autonomismo che non fosse quella schiacciata su un regionalismo anacronistico e del tutto fallimentare, il centrodestra ha pensato bene di saldare il conto delle riforme di legislatura in due scomode rate separando quella sulla forma di Stato (federalismo) da quella sulla forma di governo (premierato), con l’obiettivo di spartirsene più o meno equamente il dividendo elettorale. Ma è facile più a dirsi che a farsi dal momento che l’autonomia differenziata scalda solo i cuori nordici mentre, a differenza della Lega la cui presenza al Sud va facendosi simbolica, FdI e FI sono partiti diffusi in egual misura su tutto il territorio nazionale. Entrambi, infatti, sono impegnati a fronteggiare le perplessità più sussurrate che dichiarate in questa fase, di ampi settori delle rispettive articolazioni meridionali, a dir poco riluttanti a pagare il conto delle concessioni ai leghisti. Se non se ne coglie neppure l’eco mediatica è solo perché l’imminenza della scadenza elettorale sconsiglia audaci operazioni-verità e scoraggia l’adozione di posizioni coerenti sotto il profilo ideologico-valoriale. In compenso, è scattato il “si arrangi chi può”.
Tradotto, significa fare di necessità virtù e dotarsi di due opposte tattiche a seconda che si operi nel Mezzogiorno o nel Settentrione. I post-berlusconiani si sono già portati avanti sulla via dello sdoppiamento, con i governatori del Sud che tramano per rallentare l’iter del ddl Calderoli e con gli ex-leghisti approdati alla corte di Tajani che hanno dato vita a Forza Nord, con tanto di tinta verde-pratone di Pontida nel simbolo all’evidente scopo di fare razzie di consensi leghisti. Frenatori dell’autonomia al Sud, iper-federalisti al Nord ma nello stesso partito a Roma. Funzionerà? Da qui alle elezioni certamente sì, anzi ognuno cercherà di massimizzare i profitti derivanti dalla doppia strategia sui rispettivi territori. Il problema è il dopo. Che cosa accadrà quando, vigente l’autonomia differenziata, i governatori del Nord, Zaia in testa, cominceranno a chiedere la devoluzione delle competenze disponibili con annesse risorse per il loro territorio? In poche parole, che cosa accadrà quando sarà chiaro a tutti che la legge Calderoli avvierà concretamente quella “secessione dei ricchi” (copyright dell’economista Gianfranco Viesti) oggi considerata alla stregua di una provocazione intellettualistica? Non parliamo – si badi – di scadenze di là da venire bensì di funzioni (Confindustria ne ha contato ben 184) immediatamente trasferibili alle Regioni richiedenti (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna), sulle quali lo Stato non potrà più legiferare con buona pace della salvaguardia del principio dell’unità giuridica ed economica della nazione.
Sarà a quel punto che il centrodestra (FdI e FI) rischierà di pagare salato il conto della perdita complessiva di una dimensione autenticamente nazionale, basata cioè non solo su un’organizzazione diffusa su tutto il territorio ma anche su programmi condivisi e su un idem sentire da Bolzano a Pantelleria. E sì, perché la logica del partito-spezzatino, una volta alle prese con il problema del crescente squilibrio territoriale, da risorsa che era apparirà in tutta la sua strutturale debolezza. Né sarà facile reimpostare una vocazione nazionale, sintesi, cioè, di entrambe le “questioni” – meridionale e settentrionale – dopo aver scommesso politicamente tutto sulla vis attrattiva del bifronte profilo territoriale. Sarà quello il momento in cui l’antico dualismo Nord-Sud, da problema politico si andrà ingarbugliando in nodo geografico. Significa che a determinare le alleanze e gli schieramenti – i filosofi del diritto scomoderebbero la dicotomia schmittiana amico-nemico – non saranno più le ideologie, i programmi o gli schieramenti bensì la residenza, l’anagrafe e il certificato di nascita. E sarà un pessimo affare.
Fantapolitica? Non proprio. Anzi, è lo sbocco obbligato di ogni dinamica applicata a modelli di stati unitari che abbia per partenza il decentramento, per tappe intermedie l’autonomia e il federalismo e per fine corsa l’indipendenza con annessi conati secessionistici. È la “sindrome catalana”, con cui la Spagna sta facendo i conti da circa un decennio. Ma è quello che rischia di accadere anche da noi a causa di chi, forzando la storia, la logica e la dottrina costituzionale, pretende di rendere “federale” uno Stato unitario. Spiace che questo “chi” coincida con una destra inopinatamente dimentica della propria storia e dei propri valori. Per tutta risposta i suoi esponenti innalzano il vessillo del premierato, che a loro dire dovrebbe ricondurre a unità i tanti staterelli della nascente “Repubblica di Arlecchino”. Ma è solo un’altra mission impossible dal momento che, una volta trasferite competenze, funzioni e risorse alle Regioni, al presidente eletto dal popolo non resterà altro che montare di guardia davanti al bidone vuoto di Palazzo Chigi. Insomma, salvo miracoli dell’ultim’ora, siamo ai capitoli conclusivi della nostra storia unitaria. Dopo non resterà che dichiarare il decesso cerebrale della patria: «Qui si disfa l’Italia e si muore». Peccato solo che a rovesciare la celebre esortazione rivolta da Garibaldi ai patrioti di ieri siano i sedicenti patrioti di oggi.