L’autunno è la stagione del silenzio. I clamori dell’estate sembrano lontanissimi. E, giorno dopo giorno, s’affollano nell’anima dolcissime note di quiete accompagnate dalla campagna che muta colore, dagli odori che si fanno più aspri, dalla terra che scurisce dopo i primi piovaschi, dalla raccolta nell’intimità delle memorie dissipate un poco durante i mesi caldi. Si scrutano dietro i vetri i cambiamenti impercettibili, ma costanti, di settimana in settimana, che intervengono nei comportamenti minimi di uomini e donne di qualsiasi età e ogni persona che cade sotto la nostra attenzione ci si chiede come stia vivendo il «nuovo inizio».
E già, perché di questo si tratta. Non tutti la penseranno così, ma per me l’autunno è sempre stato l’inizio di qualcosa e, insieme, il riannodarsi di tanto altro che si era sfilacciato. I progetti, per esempio, li ho sempre disegnati in questa stagione di raccoglimento. E il primo dell’anno continua a essere il primo giorno d’ottobre perché quando ero bambino, adolescente, ragazzo la scuola riapriva i battenti in questa data e tutto riprendeva, tra i banchi, il corso del tempo che mi appariva naturale dopo la pausa estiva perfino troppo lunga e noiosa, oltre che faticosa da sopportare quando il sole sbiadiva, le giornate s’accorciavano e fuggivano più velocemente.
D’autunno, quando i pomeriggi tiepidi cedono improvvisamente alle serate fredde, è naturale pensare alla mutevolezza della vita, alla provvisorietà che ne costituisce l’essenza e perdersi nel cielo che imbruttisce quasi con allegria, accettando fatalisticamente il destino che ci è riservato. Non a caso nella stagione delle foglie morte, la memoria ritorna anche agli immemori di professione si potrebbe dire, ed è il giorno in cui si ricordano i morti, la vita passata delle persone care o solamente conosciute. Un modo, l’onore che gli si reca, per riallacciare rapporti tra l’al di qua e l’aldilà che costituisce, in fondo, l’essenza del nostro passaggio guidati o protetti (fate voi) per chi crede ovviamente, dagli Angeli che vengono celebrati, nella tradizione cristiana, il secondo giorno d’ottobre, proprio quando l’autunno, dopo le prime incertezze, diventa più rigoroso, meno accondiscendente con le speranze che dispiegano i semplici tra la fine della vendemmia e l’inizio della raccolta delle olive. Agli Angeli si raccomandano i bambini. E, non so perché, nella Messa che seguo, mi capita sempre di rilevare sorrisi ancorché appena accennati, per tutta la funzione, sul volto delle mamme che tengono per mano i loro figli. L’improprio paragone con l’estate è inevitabile. D’estate, non si ride con il cuore; d’autunno si ride con lo spirito. E con lo spirito si piange sulle tombe dove riposano i ricordi di vite intense, anche quando brevi, vissute all’insegna del ritorno. C’è questa credenza che attraversa l’autunno e ci predispone all’arrivo della stagione fredda e con essa del Natale.
Tutto, si pensa non senza ragione, deve prima o poi ritornare. È un sentimento, questo del ritorno, che mi è entrato nelle carni fin da quando ascoltavo, davanti al camino, nelle sere d’autunno appunto, storie vere e leggende, fatte rivivere con levità dalle mie nonne, dalle mie zie, spesso da vecchi contadini che ci facevano visita recando con loro i primi frutti autunnali colti nelle nostre campagne, che ci sbalordivano proiettandoci in dimensioni antiche, tramandate oralmente di generazione in generazione, con la narrazione di eventi che sullo sfondo dell’autunno si erano snodati per i monti e per le valli della mia terra.
Il profumo del mosto saliva dalle cantine, il primo olio appena sgorgato dalle cannelle del frantoio dava fragranza al pane abbrustolito sulla brace, mentre le donne di casa s’affaccendavano per preparare l’umile domani, ma quanto saporito, fatto di pasti poveri e di avvenimenti ordinari dei quali avverto, nella complessità di una vita che va consumandosi, la nostalgia struggente che talvolta non mi fa staccare lo sguardo dal cielo che ingrigisce, dagli alberi che ingialliscono e si spogliano, dalla natura che promette apparentemente morte mentre prepara la rinascita, come nel gioco dell’eterno ritorno che tanto tempo fa un filosofo solitario faceva tra i pastori dell’Engadina.
Su per le colline che attraverso, oggi l’autunno ancora mi parla, con voce sempre più flebile, difficile da udire talvolta perché coperta dal chiasso infernale di meccani che non rispettano il Tempo, distolgono la Ragione, distraggono l’Anima. Eppure, nonostante tutto, nel frastuono e nel tripudio di volgari danzatori del nulla, là, su quelle colline un po’ rosse, un po’ giallastre, un po’ nude, incontro ogni anno San Martino. Vi chiederete come faccio. Non lo so neppure io. So soltanto che è da più di cinquant’anni che accade l’11 di novembre, la sua festa, quella di patrono del mio paesello. Non mi domandate come sia arrivato da Tours, in Francia, nel profondo Sud della penisola, perché non so darvi una risposta. So soltanto che da bambino e ancora oggi, senza vergognarmene come non se ne vergognano i miei compaesani, partecipo a una fiera, nel giorno in cui si festeggia il Santo, nella quale si trova di tutto, anche ciò che nei fornitissimi e anonimi supermercati che ci assediano non compare sugli scaffali. Prodotti artigianali, spesso costruiti con le medesime tecniche di cento e più anni fa; frutti della terra che non vanno per la maggiore; utensili ricavati da tecniche contadine, vuoi da usare in casa, vuoi nei campi per arrivare laddove le mostruose macchine coltivatrici non arrivano. E le sementi, le stoffe, i cappelli, le sedie impagliate, gli immancabili ombrelli che è d’obbligo acquistare prevedendo le piogge abbondanti dell’inverno…
Ecco, con la festa di San Martino si entra in un’altra dimensione. Si spezza in casa il pane raffermo e lo si cucina con le verdure selvatiche di campo insieme con i fagioli e il tutto, un pasticcio dal sapore straordinario, innaffiato con l’olio nuovo. Ci si promette di approssimarsi al Natale in un certo modo, anche se quasi mai poi avviene. Si fanno i conti di quanta legna o carburante occorrerà per riscaldarsi. E si aspetta così, all’imbrunire, la fine della festa del Santo dei poveri, a cui diede il suo mantello, consegnandoci all’inverno finalmente che meteorologicamente, ma soprattutto spiritualmente è già arrivato. Con le noci e le castagne, naturalmente. E l’ultima melagrana rimasta in mezzo al tavolo in cucina a ricordarci i rossori dell’estate e le promesse mantenute dell’autunno trionfante. Ognuno ha le sue passioni. Io amo la terra che guardano il cielo, le stelle, e immaginando ciò che non si vede. D’autunno è più forte il sentimento di appartenenza a questi elementi della natura che si insinuano nell’animo umano. Mi sono chiesto più volte perché accade. E la sola risposta che ho potuto azzardare, a molti può apparire bizzarra. Le stagioni, mi sembra, sono la materiale epifania dello spirito del Tempo e del Mondo. Esse scandiscono la vita e l’abbracciano. Siamo noi stessi proiettati fuori da noi a costruirle vedendo con gli occhi dell’anima ciò che nessuna creatura percepisce se non in maniera istintiva ed elementare. Oggi, l’autunno è radioso mentre scrivo in una città del nord Europa. E i canali che l’attraversano prima di gettarsi nel grande fiume recitano una nenia dolce come questo ultimo sole che si appoggia alla finestra. Verrà tra poco il tramonto, ma nella notte che s’allunga non dispererò di trovare un domani altrettanto radioso anche se, quasi sicuramente, non ci sarà il sole. È l’autunno, stagione di incertezza, stagione della provvisorietà, come l’esistenza terrena. Ma anche come la Bellezza: si sa che sfiorisce, però quando accadrà il suo ricordo terrà vivi sentimenti ed emozioni. Memorie, soprattutto. Come quelle che giocano a nascondersi e a riapparire tra le betulle che si spogliano con pudore.