Tra i “film di Natale” merita di essere segnalato “Avatar, la via dell’acqua”, sequel di “Avatar”, sempre per la regia di James Cameron. Alla messe di recensioni positive, vorrei aggiungere qualche considerazione sul film, destinato a battere i record d’incasso di tutti i tempi, spodestando proprio quello da cui deriva (stessi protagonisti, stesso pianeta – Pandora – anche se qui l’ambientazione dominante non è più la foresta bensì l’acqua).
Non entrerò nel merito della storia e dei modi con cui viene raccontata: dato il trucco integrale degli “uomini blu” – che, ad esempio, rende irriconoscibile Kate Winslet – e tralasciando la vexata quaestio del doppiaggio, appare assai difficile disquisire sulla qualità della recitazione. Questo film fa parlare di sé per la strabiliante qualità – e quantità – degli effetti speciali, tanto da far evocare a un critico illustre come il Mereghetti il manifesto poetico di Giovanbattista Marino, celebrato autore del barocco: “E’ del poeta il fin la meraviglia”.
E qui la “meraviglia” dello spettatore, dotato degli indispensabili occhiali per la visione in 3 D, è ininterrotta per tutte le tre ore e un quarto della proiezione. E’ un continuo essere aggrediti – o trovarsi a cavalcioni – di specie di pterosauri, è un continuo ritrarsi davanti allo spalancarsi di fauci mostruose – ma solo contro i “cattivi” – un continuo essere sfiorati da banchi di pesci, da liane, da minacciose navi spaziali e mezzi anfibi. Insomma, siamo di fronte al trionfo della concezione filmica di Georges Mèliès, l’antagonista dei fratelli Lumière, ben decisi, loro, a riprendere e restituire allo spettatore la semplice realtà con la loro macchina da presa; mentre Méliès quella realtà la vuole superare e reinventare, come dimostrano le sue opere, da “Le allucinazioni del Barone di Münchausen”, al famoso “Viaggio sulla luna”, fra le prime pellicole a far uso di effetti speciali (necessariamente, allora, rudimentali: siamo nel 1902!).
In “Avatar”, è stato detto, gli effetti speciali sono il film. Ebbene, a mio parere, non è del tutto vero, anche se la sceneggiatura – la trama – appare debole e scontata. Intanto, tutto il racconto filmico è costellato di citazioni cinematografiche – anche auto-citazioni – e letterarie: alla rinfusa, ricordiamo Titanic e Underworld di De Lillo, L’avventura del Poseidon e Pinocchio di Colodi. Ma soprattutto colpiscono la dovizia dei mezzi impiegati e i messaggi “metapolitici” del film. Quanto al primo punto, si tratta di un dato ricorrente nelle produzioni americane, con poche o nulle possibilità di competere da parte di quelle di altri continenti; ma si badi bene: spesso la quantità di denaro investito non incide negativamente sulla qualità “culturale” del prodotto: qui non è il caso di perdersi in elenchi che sarebbero per forza di cose incompleti, ma tutti noi sappiamo che sono numerose le opere cinematografiche – o le singole sequenze – entrate a far parte dell’immaginario collettivo, al di qua e aldilà dell’Atlantico.
E si badi bene ancora: i messaggi veicolati da quei film – per limitarci alla settima arte – sono stati e sono spesso largamente condivisibili anche da parte di chi è critico della cosiddetta “americanosfera”. Il discorso ci porterebbe fuori dal seminato (e speriamo di poterlo sviluppare in altre occasioni), ma è innegabile che, più o meno nascostamente, prodotti di quella cultura hanno affascinato personalità ostili come quella di uno Stalin o di un Goebbels, per tacere delle legioni di intellettuali “di destra” (ma anche di sinistra) che si sono esaltati di fronte al western, alle gangsters stories e perfino ai musical e alle sophisticated comedies.
Insomma, parafrasando Benedetto Croce, è difficile non dirsi un po’ “americani”: sono i patimenti e le contraddizioni della metapolitica, che la si pratichi o la si subisca.
Tornando al nostro “Avatar 2”, la fantasmagoria a ritmi incalzanti – e rombanti – di effetti speciali, non deve distoglierci dai messaggi. In questo trovarobato caleidoscopico ne troviamo sia in linea che in contrasto con il “mainstream”. Ecco ad esempio, la continuazione dell’ultimo filone western – per capirci, da “Soldato blù” a “Il piccolo grande uomo” – nel quale viene rovesciato il tradizionale ruolo di “buoni” assegnato ai bianchi e di “cattivi” agli uomini rossi: in Cameron, infatti, i “cattivi” sono gli scienziati e i marines che perseguitano gli “uomini blu” e il rinnegato protagonista (l’ex collega che ora si è formato una famiglia con una donna della tribù dei Na’vi), mentre i “buoni” sono gli uomini blu che, non a caso, usano archi e frecce.
Sempre in questo baule magico, troviamo l’esaltazione dei matrimoni misti, ma nello stesso tempo viene valorizzato il modello della famiglia tradizionale – un maschio, una femmina, dei figli – dove nessuno mette in discussione l’autorità paterna (al netto delle fisiologiche trasgressioni adolescenziali) e il ruolo “forte” della madre. Altri messaggi nutriti di buoni sentimenti: l’onore, il coraggio, l’amicizia virile. Non mancano, in questa favola tecnologica, l’elogio degli animali – per mostruosi che siano – e la condanna di chi si accanisce contro di loro (anche qui, con una citazione “al contrario”: le sequenze dell’attacco alla nave dei “cattivi” evocano quelle de “Lo squalo”, dove il “cattivo” però è il mostro marino).
E a proposito di americanismo e anti, (ma anche di bellicismo e anti), anche qui, come nei bombardamenti al napalm di “Apocalypse Now” vengono azionati ordigni bellici dagli americani – sempre loro! – che devastano una foresta: insomma, se i terrestri – di cui i marines sono rappresentanti e simbolo – sono alla ricerca di un pianeta che sostituisca quello nostro ormai irrecuperabile (altro tema ricorrente in tante pellicole di fantascienza), la colpa è, ancora una volta, degli americani, che nella realtà d’oggi si ostinano a non firmare gli accordi per salvare la Terra.
Insomma, oltre allo svago – comunque messo alla prova sia dalla durata che dagli occhiali 3 D – allo spettatore viene dispensata, fra le righe – o meglio, fra le immagini in movimento – tutta una serie di spunti di riflessione. Non è davvero poco, per un block buster…