Lo spopolamento delle aree interne di buona parte dell’Europa e, per quel che riguarda l’Italia, in particolare le regioni meridionali, costituisce il primo fattore, legato alla decrescita demografica, della crisi delle nazioni che soffrono di tutti i mali connessi all’urbanizzazione “selvaggia” e all’impoverimento delle periferie.
In un libro collettaneo del 2019, Territori spezzati. Spopolamento e abbandono nelle aree interne dell’Italia contemporanea, si legge: “Ciò che è inteso sommariamente come ‘abbandono’, risulta essere un processo storico-geografico di longe dureé che inizia con la crisi agraria degli anni Ottanta dell’Ottocento e che, dall’ultimo dopoguerra, aumenta progressivamente la velocità e la portata, fino a generalizzarsi e capillarizzarsi, investendo anche quelle aree piano-collinari non interessate dalla crescita urbana e dalle attività terziarie. L’abbandono degli spazi agricoli e di altre aree produttive, con lo spopolamento degli insediamenti di riferimento, si presenta oggi come un fenomeno assodato, in grado di alterare le condizioni sociali, economiche e culturali dell’intero stivale e mostra, in organica relazione con i movimenti di scala globale, forti squilibri e scompensi territoriali segno di una vera e propria nuova stratificazione spaziale”.
È il sintomo di una decadenza che ha ripercussioni sulla qualità della vita e sulla protezione dell’ambiente in quanto “non vissuto”. A questo vero e proprio dramma esistenziale, sociale ed economico non si oppone niente al di là di scarse attenzioni che non hanno alcun impatto sulla vita degli europei da parte delle istituzioni comunitarie e dei governi delle nazioni che sono più afflitte dal fenomeno.
Lo spopolamento delle aree rurali significa la cancellazione di ataviche culture connesse con gli stili di vita e, di converso, la difficile fruizione dei servizi in città che diventano sempre più grandi, spesso a ridosso di quegli stessi territori dei quali si registra la progressiva fine in virtù del cedimento ad un accentuato atteggiamento di presunta “conquista” di comodità che, in parte, o almeno nelle strutture essenziali, a cominciare da quelle sanitarie, potrebbero essere trasferite proprio nei piccoli borghi, nelle località dove l’agricoltura dovrebbe essere dominatrice dell’economia ed il comunitarismo lo “spirito” di aggregazione che tiene insieme la memoria delle generazioni con la modernità sostenibile.
Certo, se la scelta di vita più “facile”, ancorché non essenziale, è quella di abbandonare agricoltura, artigianato, allevamento e ciò che di vitale vi è connesso, la stessa città che dovrebbe suggere dalla campagna una sanità alimentare ed una trasmissione di valori frugali inevitabilmente ne risente, come ci capita di notare sempre più frequentemente. Mentre le stesse aree che vanno velocemente spopolandosi, rischiano la catastrofe dal momento che nessuno più, se non una esigua minoranza, si dedica alla tutela del territorio. Le alluvioni, gli smottamenti, le rovine che quasi quotidianamente raccogliamo ai margini delle esondazioni dei corsi d’acqua, unitamente ad altre tragedie che spesso sono luttuose, vanno ricondotte allo spopolamento ed alla fine (spesso) delle aree rurali dalle quali sembra che si fugga come da una epidemia pestilenziale.
Il triste fenomeno è una delle ragioni della decadenza delle nazioni. Ricordiamo che le zone rurali europee rappresentano l’80 % del territorio dell’Unione e il 30 % della sua popolazione. Esse si trovano ad affrontare numerose sfide, come l’invecchiamento demografico, i bassi redditi, l’allargamento del divario digitale, le conseguenze dei cambiamenti climatici. Per quanto la strategia della Commissione europea volta a sostenere lo sviluppo e la ripresa di queste regioni è contenuta in un piano che dovrebbe dare i suoi frutti nel 2040, vale a dire entro diciassette anni, quando cioè dei pochi anziani che “popolano” le aree rurali non ne resterà che il ricordo, non pare molto convincente. Anche perché si tratta di un piano del quale non si è ancora capito come dovrebbe essere attuato, tranne che, secondo i burocratici di Bruxelles, dovrebbe coinvolgere i cittadini e i politici a livello dell’UE, nazionale, regionale e locale per rendere le zone e le comunità rurali più forti, connesse, resilienti e prospere.
Ma al di là delle dichiarazioni di principio, nessuno finora è venuto a dirci come far rifiorire i borghi che a nostro avviso è un processo che implica un impegno culturale e strutturale dotandoli di specifici strumenti che necessitano dell’istruzione, del sostegno all’agricoltura, dell’artigianato , della produzione di alimenti tipici da esportare oltre che a consumare in loco, vale a dire ciò che discende dalla coltivazione della terra e dall’ allevamento del bestiame.
Bisognerebbe capire che i borghi sono il cuore dell’Italia profonda e dell’Europa. Costituiscono la memoria storica delle nazioni accanto a grandi città dal passato glorioso e culturalmente cospicuo. Da essi, se si vuol recuperare la perduta identità dei popoli non si può prescindere.
Purtroppo il ricordato declino demografico, l’incuria culturale e spesso quella amministrativa riducono i borghi quasi sempre a mere e sbiadite immagini sopravvissute al tempo in cui sono stati centrali per i motivi più vari nella complessa e lunga vicenda storica nazionale.
Se è nei borghi la nostra memoria, la nostra identità, il nostro focolare primigenio, più che nelle grandi città, ci si dovrebbe attrezzare soprattutto culturalmente per tenerli in vita e costituirli quale luogo di richiamo non soltanto di un turismo frettoloso ed occasionale, ma come luoghi di ricomposizione vitali nei quali la storia si rinnova e la memoria si riallaccia alla modernità se la sa vivere senza lasciarsi sopraffare dalla invasività tecnologica. “I Borghi – ha scritto la giovane ricercatrice Elena Caracciolo nel volume collettaneo Borgo Italia (Eclettica edizioni) – sono stati trascorsi, assaporati, accarezzati; hanno avuto un odore, un amore, un’infanzia; vi si è apparecchiato, mangiato, masticato il proprio momento. Sono risuonate campane, voci amiche, dialetti”.
Insomma, ognuno di noi, tornando indietro nel passato proprio e della sua gente se è capace di sentirlo ha un borgo nel proprio cuore “cioè un posto in cui permettersi la serenità, la malinconia e soprattutto la memoria”, sostiene ragionevolmente e appassionatamente la Caracciolo.
E ciò è tanto più vero se il borgo costituisce e lo si percepisce come il centro di una comunità dove retaggi, sogni, desideri, ricordi si tengono come per mano prefigurando una tela omogenea sulla quale restano impressi i segni di ciò che è stato.
E tanto più accade questo “miracolo della memoria” quanto più ci si sforza di ricomporre le tessere di un mosaico temporale e spaziale nel quale c’è posto per sembianze care ancorché sconosciute, nel senso di non vissute.
Salvare un borgo, ripopolare le aree rurali, tutelare campagne e foreste, curare il corso dei fiumi, salvaguardare le sorgenti significa salvarsi l’anima e rinnovare in sé le memorie passate facendole vivere in una pietra, in un reperto, in un oggetto, come in un cuore.