Robert Brasillach verso gli 80 anni dalla morte. Perché è stato ucciso? La poesia muore sotto i colpi dei proiettili. Il viaggio tra i luoghi – pensieri – labirinti di Celine, di Mishima, di Brasillach, La Rochelle e poi Eliade, Horia Cioran, Berto infastidisce ancora.
Ma perché è stato ucciso un poeta? Un grande poeta. Unico. Robert Brasillach (Perpignan, 31 marzo 1909 – Forte di Montrouge, 6 febbraio 1945) ha una voce che si fa inquietudine e armonia. Si fa rapimento esistenziale e superamento di qualsiasi disperazione. Poetica dell’attesa della rivelazione pur fortemente consapevole dell’innocenza in un destino che accomuna sacrificio e fede. Un poeta fortemente cristiano che recitava:
“… O Signore, noi che siamo stati rinchiusi dietro queste porte,
E che siamo stati sbarrati con mille catenacci,
Noi per i quali i soldati di questa fortezza
Fanno risuonare i loro passi nel chiuso dei corridoi,
O Signore, Voi sapete che sdraiati sulla paglia
O sul duro cemento delle prigioni senza finestre
Abbiamo saputo trovare in noi stessi, sia quel che sia,
La speranza incrollabile dei tempi migliori.
Abbiamo ricordato gli antichi affetti
Abbiamo disegnato sul gesso dei muri
Le affascinanti immagini della nostra santa giovinezza
E i nostri Cuori senza rimorsi sanno che resteranno puri.
Fuori la stoltezza si bagna di rosso sangue,
E il nemico già si crede immortale
Ma egli solo spera nel lungo avvenire del suo potere.
E le sbarre, O Signore, non riescono a nasconderci il cielo.”
Una poesia che si raccoglie in una parola che sembra dettata come preghiera e si canta come se fosse una recita di rosario. Si tratta di una poetica, quella di Brasillach, che ha due punti di riferimento letterari ma anche due espressioni ontologiche.
Nel 1990 nella mia monografia – saggio dedicato a Brasillach (dal titolo“La voce e i destini”, Demetra) e nei numerosissimi saggi su “Letteratura e Fascismo”, cercai di sottolineare l’importanza del poeta e dello scrittore attraverso l’armonia della fede e della grazia anche attraverso i suoi scritti di saggistica, tra i quali il saggio importantissimo su Corneille, che traccia un profilo di una letteratura altamente europea.
Poesia della tensione ma anche della distinzione. Poesia del conforto ma anche della fede. E’ un cantico non dell’esperienza ma un poema unico battuto sulla corda di una religiosità quotidiana.
Dopo i romanzi e dopo la costruzione di alcuni straordinari e riusciti personaggi che raccontano avventure (da René e Florence a Fabrizio e Caterina dalle voci del tempo al gioco dei colori, da Giovanna D’Arco a Virgilio), dopo il dramma e il destino (che ha coinvolto Brasillach stesso in un comune destino con i suoi stessi personaggi) di quella stagione in cui la giovinezza era saper correre senza timore nella vita e nei sogni e in cui la giovinezza non era soltanto “una primavera di bellezza” ma l’ancoraggio ad un tempo che supera la storia e si fa appunto avventura e destino la poesia, come parola in versi e come poetica dell’essere o come poesia-vita, è riconquista del cuore dell’uomo.
Tutto ci parla e sul piano letterario affiora il poeta che sa del destino della poesia, che sa del destino del linguaggio che raggiunge le epoche nascoste e sa catturare i segreti. Appunto nelle ultime pagine poetiche Brasillach affida tutto alla parola. La parola stessa “scavata” nel cuore e nell’animo diventa la sola compagna del suo destino. E’ una poetica della distinzione perché in essa la parola non è soltanto uno strumento di comunicazione ma è soprattutto l’anima di un pensare che oltre la cronaca, oltre la tragedia, oltre la morte la rivelazione esiste. E la poesia si fa segno premonitore, gesto risolutore, superamento della realtà.
Al di là c’è sempre qualcosa che va oltre. E la poesia per Brasillach disegna la poetica non solo dell’attesa e siglando la voce del destino prepara non l’angoscia del domani ma la serenità del dopo. Brasillach non soffre con i suoi fantasmi: dai morti di febbraio al canto di Andrea Chènier, dai personaggi del Vangelo ad egli stesso personaggio. Ma è come se giocasse senza ritualità, senza nascondersi ma raccontandosi come avviene nei passaggi di Spoon River di Lee Masters.
Proprio per questo è piuttosto una poesia della riconciliazione che sembra sottoscrivere un testamento sia esistenziale che spirituale. Un testamento di fede. Si pensi ai versi di “Getsemani”. La metafora del tradimento inquieta Brasillach. Ma ciò che trionfa è la figura di Lazzaro: “Tutto è possibile quando Voi volete, Signore./Il catenaccio viene tirato sulla soglia della prigione,/Il fucile s’abbassa davanti al bersaglio,/I morti già pianti escono dal sepolcro”.
Brasillach sa guardare la morte in faccia e senza timore ci lascia la sua “accettazione”. Ecco, tra l’altro, è una poesia dell’accettazione. Mai della disperazione. E il linguaggio dei suoi versi è sofferto sul piano espressivo perché ondeggia tra la recita e il diario. Versi raccolti come un diario. O un diario raccontato in versi. Ma la poesia è una lunga tensione tra la vita e l’attesa e riesce ad assorbire la straordinaria manifestazione di un incontro, che non è mai cortocircuito. L’attesa-speranza di Brasillach.
Sempre nel gioco infinito (e indissolubile) del tempo-memoria. Un tempo che non cancella i ricordi nel quotidiano ma i ricordi stessi si fanno metafora del sempre in quella metafisica del tempo che è rivelazione di una comunione che solo la poesia può partecipare e rendere vivibile. Tasselli di un mosaico che colorano il presente. Ma esiste il presente della poesia?
Esiste, invece, il viandante della poesia che approda non solo ai porti ungarettiani ma che riesce anche ad ancorarsi nel mare d’altura perché ciò è sublime, in tutto questo, non è la meditazione dell’atto poetico o la poesia stessa, bensì la contemplazione. Il poeta vive di dettagli, anzi la poesia è un dettaglio tra i ritagli di un incontro e tra lo sguardo della poesia e l’anima del poeta.
Nostalgia e riconciliazione sono, dunque, un ritornare al tempo primordiale dopo aver camminato tra le pareti di un labirinto. Nostalgia – tempo. Riconcialiazione – speranza. Ma non esiste una cultura inclusiva. O una cultura condivisa. Omologazione significherebbe. Ed io non condivido, non includo, non mi omologo.
Ci lascia questo pensiero: “A trentacinque anni, prigioniero come Villon, incatenato come Cervantes, condannato come Andrea Chenier, prima dell’ora dei condannati, come altri in altri tempi, su questi fogli scarabocchiati inizio il mio testamento. Per sentenza, dei miei beni terreni mi si vuol togliere il possesso. È facile, non ho terre né tesori e i miei libri, le mie visioni possono essere dispersi al vento: amore e coraggio non sono soggetti a processo. Per prima cosa lascio l’anima mia a Dio suo creatore, né santa né pura, lo so, soltanto l’anima di un peccatore. Possano i Santi francesi, quelli della fiducia, dire egli non arrivò mai a peccare contro la speranza. Cosa donare alla mia patria se ella stessa mi ha scacciato? Ho creduto d’averla servita e l’amo sempre, anche oggi. Essa mi ha dato il mio paese, e la lingua che è stata mia. Io non posso che lasciarle qui il mio corpo, in terra sconsacrata”.
Brasillach resta la punta di diamante del Novecento poetico europeo. Un poeta nella coerenza, ucciso per essere stato coerente.