Il mondo è talmente meraviglioso che tutti dovrebbero avere la possibilità di scoprirne anche piccolissimi luoghi. Sono di ritorno da un viaggio che mi ha portata a conoscere il mare dei Caraibi, nella Repubblica Dominicana. Il volo è stato lungo con le dieci ore di viaggio, ma arrivare in quel paradiso mi ha fatto immediatamente dimenticare la stanchezza. I colori del mare sono indescrivibili, il profumo che si respira è unico e la musica cattura dal primo minuto. Gli scenari che si aprono come un sipario dinanzi agli occhi, sono come veri dipinti ma dove a dipingere può essere stata solo la mano di Dio. La gente è cordiale, gentile, allegra ma soprattutto molto rispettosa. I valori vengono messi al primo posto, per quella gente rispettarsi e condividere è la più alta forma di esempio per la società. Nessuno manca di un saluto, di un grazie, di dare aiuto. Tutti sono molto accoglienti, considerando il turista come colui che porta loro una manciata di solidarietà, in una povertà che allegramente sanno indossare come un bel vestito, mostrando sempre un sorriso. Lo stipendio massimo di un lavoratore è di circa trecento euro mensili, le case sono molto semplici.
Quando nel lontano 1844 la guerra d’indipendenza diede l’autonomia alla Repubblica dominicana da Haiti, il cambiamento comportò una netta scissione soprattutto a carattere economico. La Repubblica Dominicana con il turismo riesce a tenersi in piedi ma Haiti è nella disperazione. Gli haitiani scappano chiedendo asilo e lo stato dominicano gestisce questa immigrazione offrendo loro ospitalità in villaggi fatti di baracche, dando ai bambini la possibilità di andare a scuola e fornendo il lavoro nei campi agli uomini. Si occupano così delle piantagioni di canna da zucchero, di raccogliere tabacco e caffè, cacao e vaniglia, che sono le maggiori risorse del luogo insieme al gustoso cocco. Dietro ad un chicco di caffè si cela tanto lavoro così come per ricavare lo zucchero o il cacao.
È stato molto interessante seguire ogni passo nel procedimento di raccolta e pulitura delle canne da zucchero per poi assaggiarle assaporandone il gusto delicato e dolce. Vecchi e saggi uomini ci hanno mostrato il tabacco, come vengono trattate le foglie e come viene fatto un sigaro, con maestria e attenzione, uno ad uno, a mano, senza ausilio di macchine industriali ma semplicemente con un aggeggio che assottiglia le foglie pressandole e poi avvolgendole e incollandole con una colla naturale. Il sapore ed il profumo di quei sigari è piacevole e non disgustoso, io non fumo e sinceramente mi da fastidio l’odore di sigarette o sigari ma quel profumo non era affatto male anzi!
Abbiamo fatto visita ai villaggi della gente del luogo, esperienza che porta in una dimensione talmente tanto lontana dal nostro vivere che ci si rende conto che il nostro lamentarsi del tutto che abbiamo dovrebbe solo farci vergognare davanti alla vita. Fango e pozzanghere dopo un breve temporale hanno riempito in mezz’ora le strade. Le baracche sono piene di nulla, un nulla che sprofonda negli occhi di chi guarda. Un null’avere che corrisponde alla sopravvivenza. Siamo entrati nella scuola portando cibo, ghirlande di fiori e abiti usati che ci appartenevano, quei bambini avevano spalancato i loro occhi e allargato le braccia, era un brulichio di parole ammucchiate a dire “dai a me, dai a me!”, bimbi di ogni età, vestiti con abiti semplicissimi, i maschietti con i capelli cortissimi quasi rasati e le bimbe con mille treccine raccolte e colorate. Prendevano il cibo con avidità e attesa. Un misto fra la fame ed il rispetto. I loro occhioni grandi e scuri sui volti minuti riempivano di una sorta di triste allegria. Non so descrivere meglio l’emozione che si prova a stringerli e a coccolarli, viene l’istinto di portarseli tutti via e di conceder loro una vita migliore. Loro non conoscono la differenza fra la nostra e la loro vita, sono troppo piccoli per capirlo, si accontentano del minimo che possiedono proprio perché non conoscono il massimo. Sono bimbi apparentemente felici che sono in grado di catturare tanto di quell’amore inimmaginabile. Ci abbracciano, si mettono seduti sulle nostre gambe, ci sorridono, qualcuno cerca di aprirmi lo zaino e un altro prova a sfilarmi gli occhiali dalla testa. Sono curiosi, sono veri! sono semplicemente bambini meravigliosi!
Si sale nuovamente sul camion Safari e ci avviamo verso il Rio Chavon, lo stesso fiume dove furono girate le scene dei film “King Kong”, “Apocalipse Now” e “Anaconda”. Saliamo su una grande zattera di legno, le acque del fiume sono di colore verde smeraldo e serpenteggia in uno spettacolare canyon costituito da una vegetazione di natura molto selvaggia. Lentamente si risale il fiume e sulla zattera c’è musica che accompagna l’escursione a danza di merengue, immancabile il rhum servito senza parsimonia. Ci si può tuffare afferrando una liana, alla prima sosta a riva, se il coraggio non manca è pazzesca l’emozione e la suggestione lanciandosi nelle antichissime acque del grande Rio Chavon.
Nuova tappa è il percorso in Buggy e in Quad attraverso le piantagioni di canne da zucchero. Chilometri e chilometri su strade sterrate, nei viottoli in mezzo ai canneti, nelle strade dei villaggi, su pezzi di strada asfaltata per poi rituffarsi fra la vegetazione. Si rivivono i percorsi che ogni giorno sono vissuti dalla gente che ci vive, si scoprono le caratteristiche della sofferenza silenziosa e dell’allegria inconsapevole. Ci salutano i bimbi e gli adulti al nostro passaggio e spesso mentre siamo in corsa ci allungano la mano solo per far risuonare il loro palmo al nostro, un contatto che in un nanosecondo riesce a penetrare l’anima con un calore che riscalda. Si risale sul camion e salutando la gente dei villaggi una lacrima riga il viso non solo a me, tutti hanno gli occhi lucidi. Si ritorna al Resort; la musica caraibica ci accoglie come tutti quelli che ci lavorano. Ecco dinanzi a noi il mare e il comfort offerto al turista.
La scoperta dell’isola di Saona è una vera sconcertante poesia! Un’isola di sabbia fine e bianca, con tantissime palme di cocco che regalano la loro ombra. Il sole è caldissimo ma la sabbia non brucia sotto ai piedi scalzi. Poco prima di arrivare all’isola ci siamo fermati alle piscine naturali, dove ci hanno concesso di scendere nel mare poco profondo, ma con la raccomandazione di non toccare assolutamente le stelle marine. Come già sapevamo le stelle marine hanno una sostanza sul corpo, che permette loro di respirare e che viene alterata al contatto con le nostre mani provocandone disidratazione. Portandole fuori dall’acqua anche se per un solo istante, si causa la formazione di una bolla di aria nel loro sistema, che porta la stella marina a morire per embolia. Siamo stati molto rispettosi guardandole in snorkeling ed è stato strabiliante ammirare quelle stelle marine gigantesche poggiate sul fondo, mentre si muovevano lentamente quasi ad accoglierci nel loro mondo per farsi fotografare. Ovviamente c’è sempre il tipo di turno che con menefreghismo preferisce immortalarsi con in mano una sfortunata stella, destinata a morire per l’egoismo di un ignorante. Abbiamo mangiato il cibo servito dalla gente delle spiagge dell’isola, buonissimo. Abbiamo acquistato dai loro punti vendita con i quali vivono. Ci sono quadri dai colori molto forti raffiguranti mare, palme, isole e figure umane molto variopinte. Abbiamo scoperto la pietra Larimar conosciuta anche come pietra di Atlantide. Si tratta di un silicato di calcio molto raro appartenente alla famiglia delle pectoliti. La pectolite si trova in tutto il mondo nei toni che vanno dal bianco al grigio ma solo nelle montagne sopra Boaruco nella Repubblica Dominicane si trova il Larimar con i colori unici che fondono insieme cielo e mare. Un maestro spirituale che praticava anche yoga, vissuto a Trinidad e Tobaco, sosteneva che alcune isole dei Caraibi facevano parte della perduta Atlantide e sosteneva dunque che tale pietra fosse per questo motivo ancora più rara e preziosa. Successivamente nel 1916 il ministero delle miniere si rifiutò di concedere ad un uomo, un certo padre Miguel Domingo Fuertes Loren, di accedere ad una miniera di una pietra particolarmente insolita e così ancora una volta la pietra rimase nell’incognito. Fu solo nel 1974 grazie a Miguel Mendez e Norman Rilling che dopo aver trovato sulla spiaggia dominicana dei pezzi di questa pietra e credendo si trattasse di una nuova scoperta (in realtà già conosciuta da secoli) le diedero il nome di Larimar poiché la figlia di Mendez si chiamava Larissa e Mar che in spagnolo significa mare, ecco nata la pietra LARIMAR, del colore che va dal mare al cielo. Alla pietra Larimar sono state attribuite delle proprietà magiche e cristalloterapiche. Questo minerale aiuta la mente a mantenere lo stato di calma, consentendo alle emozioni del cuore di emergere, favorisce la serenità, armonizza l’anima e allontana sentimenti negativi. Permette di rapportarsi con gli altri comunicando con chiarezza. Connessa al charka della gola, il Larimar aiuta chi soffre di patologie alla gola o di fastidi alla cervicale. Scoperte tante proprietà che ci sono state descritte nel dubbio compriamo tutti un pezzettino di questa pietra magica!
Dopo un’ultima nuotata, che pare non voler mai terminare in quel mare appartenuto nelle leggende ai pirati dei Caraibi, richiudiamo le nostre valige e ci apprestiamo a dire arrivederci a questa fantastica terra dove non potrebbe mai trattarsi di un addio, un giorno si dovrà assolutamente ritornare a recuperare un frammento di cuore che irrimediabilmente ci accingiamo a lasciare in quel paradiso.