Nel 1734 Carlo di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna e Elisabetta Farnese, s’insediò sul trono di Napoli, dopo secoli nuovamente regno indipendente. Si trattava di una corona molto precaria, insidiata com’era dall’Austria e mal tollerata dalle altre potenze europee e per di più gravata dallo sfacelo economico interno, appesantita dalla rapacità di clero e feudatari e umiliata dall’inettitudine dell’amministrazione pubblica. Carlo, uomo intelligente e spirito innovativo, non si perse d’animo e avviò da subito una politica di ricostruzione statuale e di sviluppo economico con al centro la questione marittima.
Una decisione improrogabile. Oltre ad insidiare le coste, la minaccia barbaresca paralizzava da tempo il cabotaggio tra i malandati porti nazionali, un traffico essenziale per un regno quasi privo di strade. Dopo essere fortunosamente sfuggito al suo rientro da Procida ad un tentativo di rapimento da parte dei corsari algerini, il sovrano acquistò dallo Stato pontificio tre galee in costruzione a Civitavecchia; poco dopo piantò personalmente il primo chiodo nella chiglia della nuova nave ammiraglia e aprì l’Accademia dei Guarda Stendardi, collegio per la formazione degli ufficiali, e la Scuola dei Grumetti, l’istituto per i futuri piloti. Il 25 febbraio 1739 fu istituita ufficialmente la forza armata, inizialmente imperniata su tre squadriglie: sciabecchi e feluconi a protezione dei settori ionico e adriatico e galee nel canale di Sicilia e sul Tirreno. Una proiezione modesta ma efficace e già il 23 giugno al largo di capo Palinuro la flottiglia tirrenica comandata dall’alfiere Orazio Doria catturava due navi corsare tripoline. Il primo successo della giovanissima Real armata di mare.
A fronte del crescente impegno militare, rafforzato dall’istituzione del corpo di fanteria di marina, il sovrano cercò di risollevare anche le sorti del settore mercantile e il 18 agosto 1741 promulgò il “Real editto per il commercio marittimo”, un documento in cui constatava che mancando ai suoi sudditi «l’importantissima regola del navigare ne viene sommo pregiudizio al commercio e alla riputazione e gloria dello Stato» avocava al potere regio ogni decisione: «saranno da Noi stabilite e pubblicate tutte le leggi appartenenti alla buona e utile navigazione come al felice commercio che per mille vincoli, per poca o niuna sicurezza, per mare e per terra, era scarso e inceppato.
Seguirono una serie di interventi coerenti promossi dal valido ministro Bernardo Tanucci tra cui la riorganizzazione delle dogane con l’istituzione del Supremo Magistrato dei Commerci, il “De Officio Nautis et Portibus” — precisa regolamentazione per patenti, giornali di bordo, utilizzo della bandiera nazionale, formazione di equipaggi, sanità marittima — e il riordino delle scuole nautiche. Nel frattempo nel porto di Napoli, ingrandito con nuovi moli, fu creato un polo militare ed edificata la Deputazione di salute (l’Immacolatella, successivamente inglobata nella calata Porta di Massa). L’arsenale venne ampliato con scali per la costruzione e il ricovero delle galee, una darsena di 14mila mq e un cantiere per il naviglio maggiore circondato da officine, alloggi e forni per la “panatica”. Con il varo dei primi vascelli mercantili d’alto bordo gli scali di Sicilia, Calabria e Puglia, costantemente insabbiati, furono riqualificati e riaperti alla navigazione mentre le coste vennero ulteriormente fortificate. A Palermo si ristrutturò la Fabbrica della Real marina (dal 1999 sede del Museo del mare) e si istituì, in un singolare edificio a forma di vascello detto la “nave di pietra” (ancor oggi visibile nel borgo dell’Acquasanta) il Reale seminario nautico, un collegio riservato agli orfani dei marinai.
La politica marittima carolina s’intrecciò ad un parallelo sforzo diplomatico sviluppato sia nel Mediterraneo che verso l’Atlantico e il Mare del Nord; tra il 1739 e il ’53, vennero stipulati trattati di commercio e navigazione con l’impero asburgico, la Porta ottomana, il Marocco, Tripoli, l’Olanda, la Svezia e la Danimarca. Presto l’attivismo napoletano iniziò a preoccupare la Gran Bretagna che, riprendendo Gioacchino Volpe: «Prese ad esercitare, ora con mezzi pacifici ora con minacce di guerra, una sua influenza su quel restaurato regno […] più ancora in Sicilia. A differenza di Napoli, la Sicilia aveva sempre il suo Parlamento e nello sforzo di difenderlo, lo esaltava, ne ricercava le lontane origini, ne scopriva affinità con il Parlamento inglese, anzi le influenze di questo, e quasi le comuni origini. Avvenne così che la Sicilia prese, nell’aristocrazia e ceti colti, qualche coloritura inglese, acquistò conoscenza di cose inglesi. Quella che nella valle del Po era la Francia, all’altro estremo d’Italia, forse ancor di più, l’Inghilterra. Insomma, alla penetrazione economica, che si esplicava nell’esercizio di una specie di tutela che i consoli inglesi esercitavano sui ceti mercantili locali di fronte al governo napoletano, si era accompagnata una non minor penetrazione intellettuale».
L’invadenza commerciale e politica albionica si trasformò in aperta ostilità il 19 agosto 1742 quando una squadra navale britannica fece ingresso nel golfo di Napoli. Non si trattò di una visita di cortesia ma di un perfetto esempio di gunboat diplomacy: per imporre al regno la piena neutralità nella guerra di successione austriaca, il commodoro Martin minacciò di bombardare la città. Carlo fu costretto ad accettare le umilianti condizioni ma all’indomani dello smacco ordinò la costruzione di due fregate e due altre ne commissionò alla Spagna.
Assicurata allo Stato, con la sconfitta nel 1744 degli asburgici a Velletri e l’allentarsi della tutela madrilena, la piena indipendenza, il sovrano potenziò ancor di più la forza navale; nel 1754 l’armata schierava quattro squadre: la prima su un vascello e quattro fregate, la seconda su quattro galee, la terza su galeotte. La quarta, impostata su veloci sciabecchi, era comandata dallo spagnolo José Martinez detto Capitan Pepe, una figura leggendaria. L’audace marinaio non si limitò a difendere le coste nazionali ma si spinse ripetutamente nelle acque nemiche cogliendo una serie di successi che gli valsero il soprannome di “terror dei turchi”. La vittoria più clamorosa arrivò presso Zante nel ’52 quando con quattro feluconi affondò, dopo una battaglia di tre giorni, il Gran Leone, l’ammiraglia del bey d’Algeri, potente di 16 cannoni e 230 uomini d’equipaggio.
I successi di Capitan Pepe e le buone prove della flotta convinsero il monarca a proporre ai principi italiani un’azione comune contro Algeri ma l’appello cadde nella più completa indifferenza. Un’occasione perduta e irripetibile poiché, diventato re di Spagna, il 7 ottobre 1759 Carlo lasciava controvoglia Napoli affidando il trono al terzogenito Ferdinando, di appena otto anni, e il governo dello Stato ad un Consiglio di Reggenza guidato dal fido Tanucci. Innamorato della sua patria d’elezione il sovrano non volle portare nulla con se, neppure l’anello che aveva trovato negli scavi di Pompei. Si chiudeva così quella che Giuseppe Galasso, non a torto, ha definito «l’ora più bella della storia di Napoli».