Chi bara su Ustica? E se fosse proprio chi su quella tragedia verità va cercando ad intorbidare le acque fino a rendersi (inconsapevole?) complice dei soliti depistatori? Domande che sorgono spontanee dopo l’intervista rilasciata (e poi ritrattata) a Repubblica da un irriconoscibile Giuliano Amato, ormai in versione Capitan Fracassa e non più in quella di “dottor Sottile” dei ruggenti anni craxiani. La sua sortita sulla tesi del missile finito per un tragico errore nella fusoliera del Dc-9 dell’Itavia che sorvolava il tratto di mare tra Ponza e Ustica mentre nei cieli del Mediterraneo infuriava una battaglia aerea tra Mirage francesi e Mig libici è, infatti, tanto intempestiva quanto sospetta. Soprattutto, non tiene in conto alcuno la sentenza che ha irrevocabilmente assolto con formula piena i quattro generali dell’Aeronautica accusati di altotradimento per aver sostenuto che quella sera il velivolo più vicino distasse dal Dc-9 non meno di 50 miglia.
E scusate se è poco. Sì, perché o le sentenze si rispettano sempre o è sempre lecito dubitarne. Compresa quella sulla strage di Bologna che ha condannato, quali autori materiali, i “fascisti” Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Non stupisca il riferimento alla bomba esplosa alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980. Che vi sia più d’una connessione tra le due mattanze è circostanza riconosciuta persino da due esponenti di sinistracome l’ex-ministro socialista Rino Formica e l’ex-presidente comunista della commissione Stragi Giovanni Pellegrino. Il primo dalle colonne di Domani, il secondo da quelle di Repubblica solo pochi giorni fa hanno sostenuto che è interesse politico della destra avvalorare la tesi della bomba a bordo dell’aereo Itavia perché questo potrebbe illuminare di nuova luce le responsabilità sulla strage di Bologna. Il riferimento è ai “rapporti Giovannone”, dal nome del capocentro del Sismi a Beirut a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 che in più missive aveva segnalato ai suoi colleghi italiani il concreto pericolo di attentati di matrice palestinesi dopo che a Bologna era stato arrestato, il giordano Abu Aureh Saleh, elemento di spicco del Fronte per la liberazione della Palestina. Ancora Bologna, dunque, la città da cui era decollato il Dc-9 e nella cui stazione, solo 37 giorni dopo, si consuma l’orrida strage.
Ma torniamo a a Formica e Pellegrino: la loro argomentazione è logica, ma specularmente ribaltabile sostenendo che è interesse della sinistra sostenere la tesi del missile per lasciare intonsa la «matrice fascista» della bomba alla stazione. Pari e patta. Solo che qui non giochiamo a rimpiattino. Non fosse altro perché di mezzo ci sono 165 morti (81 sull’aereo e 85 a Bologna), 200 feriti e i loro familiari che ancora invocano non una verità, ma la verità. Ragion per cui bisogna mettere da parte suggestioni, convenienze, tesi a effetto e ripartire dai fatti. Il primo, già ricordato, riguarda la sentenza che ha assolto i quattro generali dall’accusa di fellonia. Il secondo è la conclusione cui perviene, dopo aver analizzato la carcassa del Dc-9, il collegio peritale internazionale (esclusi americani e francesi) costituito da esperti di chiara fama e presieduto dal professor Aurelio Misiti.
Secondo tale commissione, mai smentita da successiva perizia, lo squarcio sul velivolo è infatti compatibile con un’esplosione interna (forse nella toilette) e non con quello di un corpo entrato dall’esterno. Dal canto loro, i missilisti obiettano che tale spiegazione non convince poiché la tavoletta del water è rimasta intatta. Obiezione giusta, ma solo se si potesse escludere con certezza che al momento dello scoppio non vi fosse stato seduto qualcuno. In ogni caso, in simulazioni successive, due volte su cinque, il risultato è stato identico. Il terzo fatto, infine, riguarda il Mig libicoprecipitato sulla Sila il 18 luglio del 1980, tre settimane dopo Ustica. Per i missilisti è l’indizio della fantomatica battaglianei cieli smentita dalla sentenza. A loro dire, infatti, il Mig sarebbe caduto quella sera stessa, cioè il 27 giugno, e solo un depistaggio dei vertici militari avrebbe postdatato lo schianto al 18 del mese successivo.
«Lessi – ha dichiarato in proposito Amato nell’intervistata a Repubblica – la perizia medica sul corpo dell’aviere libico ritrovato sui monti della Sila il 18 luglio del 1980, tre settimane dopo la tragedia del Dc-9: parlava espressamente di avanzato stato di putrefazione. Non poteva essere morto il giorno prima». Infatti – ma questo Amato non lo ricorda o, se lo ricorda, non lo dice – era morto cinque giorni prima. L’autopsia venne eseguita il 23 luglio dopo che il cadavere era stato tenuto in un cimitero a temperature estive e senza refrigerazione. Chi infatti certifica che l’aviere era morto il giorno dello schianto del suo Mig è il medico legale accorso subito dopo l’incidente.
È vero, invece, che anni dopo i due medici che avevano effettuato l’autopsia,Anselmo Zurlo ed Erasmo Rondanelli, dichiararono di aver consegnato all’indomani alla Procura di Crotone un supplemento di perizia di una paginetta e mezza in cui, alla luce dell’«avanzatissimo (e non più «avanzato», ndr) stato di decomposizione» retrodatavano la morte del pilota a 15-20 giorni prima del giorno dell’incidente. Un vero gioco di prestigio che rendeva perfettamente compatibile la presenza del Mig con la tesi della battaglia nel cielo di Ustica con annesso missile francese. Peccato che quel supplemento non l’abbia mai visto nessuno. Gli stessi autori non ne possedevano copia né ricordavano a quale persona o ufficio l’avessero consegnata.
Un contesto kafkiano che nel 1989 indusse il giudice istruttore di Crotone Giovanni Staglianòa stroncare senza misericordia ma non senza ironia, la “pezza” postuma della paginetta e mezza di supplemento peritale. «Non resta – scrisse infatti il magistrato – che elogiare la capacità di sintesi dei due professori, che hanno saputo compendiare in un testo di poche righe elaborazioni scientifiche di indubbia caratura e ponderosità». Per la cronaca: nel medesimo atto Staglianò riferiva anche di conoscere la circostanza della vecchia amicizia che legava Zurlo all’amministratore di Itavia, Aldo Davanzali, il quale avrebbe avuto interesse a dimostrare che il DC-9 non era caduto, come pure si disse in un primo momento, per «cedimento strutturale». E così si torna al dubbio di partenza: chi sono, dunque, i veri depistatori?