La contessa di Castiglione fu una donna di spregiudicata bellezza, una meteora che attraversò un mondo già sulla via del dissolvimento, una cocotte illustre quanto evanescente, come venne ricordata nei versi di Gozzano. Emblema di un’epoca, non le toccò in sorte la leggendaria vecchiaia di Chateaubriand, né le toccò il sontuoso mausoleo un po’ kitsch in cui si sarebbe rinchiuso D’Annunzio, anzi lei fu presa di mira e sbeffeggiata da monelli irriverenti, con in sorte un appartamento foderato di nero, sinistro come una bara.
Nata il 1837, nella spensierata Firenze dei Lorena, dal marchese Filippo Oldoini, diplomatico ambizioso quanto mediocre, e da Isabella Lamporecchi, il cui padre era un illustre e severo giurista, Virginia sposa nel 1854 Francesco Verasis, conte di Castiglione, il primo dei suoi sfortunati adoratori, da cui l’anno dopo avrà il piccolo Giorgio, figlio non poco trascurato e maltrattato nel corso della sua breve vita, giungendo da ultimo allo scontro giudiziario per negargli una parte dell’eredità paterna.
Tre mesi dopo il parto, Virginia inaugura la sua lunga e invincibile carriera di seduttrice con un giovane ufficiale genovese. Dispotica, capricciosa e incurante di tutto ciò che non sia in suo possesso o disposto, come gli innumerevoli amanti, a diventarlo, si afferma in società al punto che al suo ingresso nei saloni ci si arrampica sulle sedie per vedere una tale meraviglia. Da Firenze alla corte di Vittorio Emanuele II, da Torino alla corte di Napoleone III (entrambi suoi amanti), la contessa, giovanissima e bellissima, passa da un trionfo all’altro e il conte Camillo Benso di Cavour in persona, suo cugino, se ne serve se non come spia, come informatrice negli anni in cui cerca nella Francia un alleato per opporsi alla dominazione austriaca in Italia.
La contessa ben servì la patria, sicché durante una rovente notte d’amore chiese a Napoleone di ricevere Cavour a corte e di ascoltarlo. Custodì gelosamente la vestaglia di quella notte di passione erotica in una ampolla che , ed era avvezza a dire, mostrandola: “Questa è la bandiera d’Italia!”.
Sfruttando abilmente i grandi balli in maschera, Virginia prende coscienza non solo della sua straordinaria avvenenza, ma anche di quell’arte della dissimulazione, della posa teatrale, degli abiti fastosi ed eccentrici capaci di far parlare di lei le frivole cronache delle gazzette. Certi sguardi maschili più disincantati, come quello di François Guizot, storico e ministro orleanista, pur nel renderle omaggio correggevano l’entusiasmo per tanto fulgore: “vanitosa, egoista, fredda, dura“. Cortigiane, pretendenti, rivali, mogli vengono sbaragliate. Capi di stato, grandi banchieri (Lafitte), diplomatici, ufficiali, saranno il lungo e plaudente corteo della sua vita, tiranneggiati, usati (spesso per soldi, o per ottenere favori, o anche per il semplice gusto di esercitare un potere e tessere trame), troppi per citarli.
Alle vittorie seguono le sconfitte, le improvvise ritirate nell’esilio provvisorio (Villa Gloria a Torino) dopo l’attentato Orsini a Napoleone; il ritorno sulle scene nei mesi incandescenti prima e dopo l’unità d’Italia (su cui in seguito edificherà il mito della sua importanza di patriota), pronta, quando il vento era sfavorevole, alla recriminazione se non al vero e proprio ricatto per ottenere prebende o appoggi nel vischioso mondo delle speculazioni in borsa. Si muoveva nelle cancellerie d’Europa con un fiuto politico e un’abilità di manovra consumate, spesso superiori a quelli dei suoi grandi e potenti corteggiatori, in una incessante attività che ha lasciato traccia nelle lettere, sempre lucide e pungenti, a dimostrazione che la bellezza e il fascino fisico e morale non erano tutto.
Batteva cassa, la spuntava per ottenere promozioni a quel padre vanesio e cerimonioso, per soccorrere un amico caduto in disgrazia, per sostenere il suo treno di vita dispendioso, le magnifiche dimore (si lamentava di un appartamento di dodici stanze davanti a palazzo Pitti!), i continui andirivieni da un paese all’altro, il lusso esibito e disinvolto. Le sue vittime, consenzienti, erano paralizzate dalla sua scaltrezza, come quando si fa trovare nuda e ingioiellata dal generale Estancelin, confermando la famosa battuta di Victor Hugo: “Una donna nuda è una donna in armi“. Mandandolo temporaneamente in bianco…
Capricciosa al massimo grado, a un ballo in maschera che doveva sancire il suo ritorno in società, indossa un fantasioso e stravagante abito etrusco, attira l’attenzione di tutti, ma viene scambiata per una nobildonna russa e si rivolge nientemeno che al ministro degli Interni per proibire la diffusione del giornale caduto nell’equivoco. Un reato di lesa maestà.
Scrive a uno dei suoi amanti: “Io non credo nell’amore, è una malattia che passa come è venuta, a poco a poco, o una febbre intermittente simile a quelle che mi affliggono di tanto in tanto; non bisogna contare su qualcos’altro, non volere niente di più, non sperare oltre. Ripeto quello che ho sempre detto, benché abbia cessato di rammentarvelo; prendetemi oggi, non contate di avermi domani. Io sono una figlia di Dio che finirà in braccio al Diavolo, se Dio non la vuole. Ecco perché con veemenza, vi scongiura: restate quello che siete, non cambiate niente di ciò che siete stato, tenetevi pronto a rientrare in voi, a riprendere la vostra vita di un tempo, se la mia venisse a mancare“. Non tollerava di essere asservita (“il volermi far fare quello che si vuole è il non volermi fare quel che si deve“), volle sempre essere e rimanere “libera come un gatto“, senza mai farsi scrupolo, là dove ne aveva interesse, a farsi passare per vittima, capovolgendo l’evidente e fastidiosa realtà, come fece con il marito, come non si vergognò di fare con il figlio nel corso della lite per l’eredità: “Quanto a lui, gli sono ancora madre, ma non è più mio figlio“.
Si fece ritrarre nel corso di un quarantennio in centinaia di fotografie dal grande Pierson, coetaneo di Nadar, edificando un autentico monumento a se stessa, in cui si affermava e riconosceva come Sarah Bernhardt sul palcoscenico. Era versata come pochi in un’arte, che per lei forse era la continuazione dei tableaux vivants, a cui non rinunciò neppure negli anni della decadenza, quando, morti tutti i grandi comprimari della sua vita, lontana da ogni mondanità, afflitta da malattie, invecchiata, ridotta a vivere in poche stanze con la mania della sicurezza, trascorreva le cene in trattoria fino a ubriacarsi, subendo perfino l’onta di uno sfratto.
Jacques Blanche, pittore, figlio del famoso alienista Blanche, che tra gli altri ebbe in cura Nerval oltre che Virginia stessa, la ritrae impietosamente in una seduta di posa degli ultimi anni: “La mia modella entrò senza far rumore, scivolando sul tappeto, come un’ ‘apparizione’. Si mise in posa di profilo, con il busto eretto. Nonostante l’alta acconciatura in foggia di diadema, era una povera cosa. Ad uno ad uno, i veli caddero a terra… E riconobbi la Regina d’Etruria, l’Eremita di Passy [abiti e personaggi da lei interpretati nei balli in maschera e ritratti da Pierson] –idolo della corte di Napoleone III- un viso famoso ma imbellettato, rovinato, da bottegaia; un pezzetto di zucchero d’orzo mezzo succhiato nella mano di un bambino”.
Morì a sessantadue anni e venne sepolta al Père-Lachaise. Prima della fine “non le rimaneva che allestire lo spettacolo della propria morte“. Dettò l’abbigliamento funebre che esigeva: “Camicia da notte Compiègne, 1857, batista merletti e vestaglia lunga a righe, velluto nero, peluche bianca: al collo la collana di perle petite fille a nove giri, sei bianchi e tre neri, la solita collana con il soldo bucato di cristallo a mo’ di fermaglio, con le iniziali e la corona, ben nota a tutte le mie vestitrici; alle braccia, nude e distese, i miei due braccialetti, un onice con perla al centro e uno smalto nero, stella e brillanti“. Ai piedi i due maltesi impagliati, Sandouga e Kasino “belli, vestiti di tutto punto, cappottini azzurri e viola con le loro iniziali e i collari a motivi di fiori rosa e cipressi“.
Lettura consigliata: La quinta stagione, dello scrittore Angelo Salvione, 2000diciassette edizioni.