• 21 Novembre 2024
Cultura

Julius Evola si conferma, con il passare del tempo, a mezzo secolo dalla sua morte (11 giugno 1974),  inesorabile cuneo nel cuore della modernità. Andrea Scarabelli ha scritto su di lui un libro magnifico e ponderoso, “Vita avventurosa di Julius Evola”, edito da Bietti (pp.737,€ 39.00), del quale ci occuperemo nelle prossime settimane, un libro dal quale non si può prescindere e che con sua complessità e completezza ci introduce ad uno dei più grandi pensatori del Novecento.

Aver letto ed apprezzato Evola, ancorché da parte di molti con comprensibili riserve, cinquant’anni fa, o ancora prima quando infuriava la discussione intorno alle sue idee, nel tentativo di sottrarlo alla demonizzazione preventiva, è come se non lo si fosse conosciuto affatto rileggendolo oggi, soprattutto dopo la pubblicazione del libro di Scarabelli, nel contesto della più sottile e radicale rivoluzione che sia compiuta: l’affermazione di un pensiero unidimensionale, omologante, totalitario nella sua essenza e libertario nella forma che è ad un tempo finzione ed involucro dello sradicamento valoriale del quale siamo, consapevolmente o meno, partecipi. Evola, paradossalmente, è molto più nostro contemporaneo di quanto lo sia stato all’epoca in cui la sua vigile osservazione e diagnosi della decadenza si dispiegava proiettandosi in una dimensione che soltanto dopo decenni, come lui stesso immaginava, si sarebbe dischiusa anche in ambiti culturali che mentre era in vita tendevano a marginalizzarlo se non  a “silenziarlo” del tutto.

L’opera evoliana, lungi dal risultare imbalsamata e conservata negli anfratti di una intellettualità minoritaria frequentata da “devoti” acritici, risulta soprattutto oggi, nella sua complessità, non soltanto un formidabile atto d’accusa straordinariamente efficace ed appropriato contro l’ideologia del declino nelle diverse forme che ha assunto, ma si rivela per ciò che in tanti riuscirono a scorgervi immergendovisi fino ad uscirne trasformati, come per esempio accadde al grande poeta tedesco Gottfried Benn dopo aver letto Rivolta contro il mondo moderno. E se erano gli stilemi di una certa “rivoluzione conservatrice” che Benn riconosceva nel libro del pensatore italiano che avrebbe conquistato con esso una non effimera notorietà negli ambienti culturali europei, va pure detto che la compiuta analisi evoliana della Tradizione apriva squarci su un orizzonte culturale che al volgere della crisi continentale, non ancora affrancata dalla prima grande guerra civile europea, si apprestava a dissolversi nella seconda come “profeticamente” aveva previsto un diagnostico di grande fascino rappresentando il “tramonto dell’Occidente” non diversamente da come anni dopo Evola stesso avrebbe fatto trascinando la “profezia” spengleriana oltre le contingenze che l’avevano ispirata per fondare nell’eclissi di una religiosità, sia pur non fideisticamente considerata, la “crisi del mondo moderno” della quale René Guènon aveva già dato una rappresentazione convincente al punto che ancora regge a fronte delle convulsioni che ci posseggono e dalle quali abbiamo l’impressione di non riuscirci a sottrarre. E’ a questo senso di impotenza che Evola ha non di rado rivolto la sua attenzione invitando ad una sorta di rivoluzione spirituale che, inoltrandoci nel XXI secolo, ci appare come la sola carta di spendere contro le contraddizioni originate dallo smarrimento intellettuale. Le conseguenze politiche sono note e la stessa crisi della democrazia sostanziale, smembrata dai poteri oligarchici, padroni assoluti del mercato, non è che l’ultimo stadio della dissoluzione sociale iniziata con i delitti compiuti dalla Grande Rivoluzione.

Il “morbido totalitarismo”, al quale  Evola ha fatto implicitamente riferimento tante volte, non si esaurisce nella pretesa di uniformare la vita secondo la standardizzazione imposta dai potentati trans-politici e dalla finanza predatoria attraverso i media, la pubblicità, la fantasmagorica allegoria della libertà esaltata – per negarla – dai social network, l’apologia dell’homo consumans come solo essere deputato ad essere considerato rilevante, la soppressione delle sovranità dei popoli, delle nazioni e degli Stati in vista della creazione di un Mercato Universale nel quale l’egualitarismo formale dovrebbe essere la linea-guida. Con lo scopo da parte degli oligarchi  intellettuali e politici che ne tengono le fila di  trasformare, fino ad azzerarle,  le diversità e catapultare da ultimo la “teoria del gender” nella pratica assimilazione dell’unisex in  una società ridotta ad un deserto di forme e priva di linfa vitale:  insomma, rivoluzione più squassante che abbia attraversato l’umanità.

Il “pensiero unico” ha consumato in fretta, nell’orrida landa delle ideologie morte, i suoi fasti, capovolgendo il principio dell’ “universalità” (che non è uniformità) proprio delle cosiddette “civiltà tradizionali” in quello “collettivo” tipico della cosiddetta “civiltà moderna”. Questo sta all’ “universale” come la “materia” sta alla “forma”, sostiene Evola. E spiega, nelle ultime pagine di “Rivolta contro il mondo moderno” : “Il differenziarsi della sostanza promiscua del collettivo e il costituirsi di esseri personali mediante l’adesione a principi e ad interessi superiori è il primo passo di ciò che in senso eminente e tradizionale sempre si è inteso per ‘cultura’. Quando il singolo è giunto a dare una legge e una forma alla propria natura sì da appartenere a se stesso anziché dipendere dalla parte semplicemente fisica del suo essere è già presente la condizione preliminare per un ordine superiore, in cui la personalità non è abolita, ma integrata: e tale è l’ordine stesso delle ‘partecipazioni’ tradizionali, nel quale ogni individuo, ogni funzione, e ogni casta acquistano il loro giusto senso attraverso il riconoscimento di ciò che è loro superiore e il loro organico connettersi ad esso. E, al limite, l’universale è raggiunto nel senso del coronamento di un edificio, le cui salde basi sono appunto costituite sia dalle varie personalità differenziate e formate, fedeli ognuna alla propria funzione, sia da organismi o unità parziali con diritti e leggi corrispondenti, che non si contraddicono ma si coordinano solidarmente attraverso un comune elemento di spiritualità e una comune attiva disposizione ad una dedizione superindividuale”. Diversamente accade nella modernità dove vige una opposta concezione, di impronta meccanicistica potremmo dire, volta al collettivismo. Sicché, come ben spiega Evola, il singolo appare sempre più incapace a valere se non in funzione di qualcosa: in questo indefinito “qualcosa” cessa di avere un proprio volto; il suo volto è quello che gli danno gli altri, il frutto della omologazione appunto, la rinuncia ad essere se stesso se non formalmente. Oggi noi rubrichiamo tutto questo sotto il titolo di “pensiero unico” il cui svolgimento è una prassi esistenziale volta alla costruzione dell’indifferentismo accettato, quasi sempre inconsciamente, come un valore portato dal dispiegamento della democrazia più compiuta, mentre è vero l’esatto contrario. Vale a dire che la regressione nell’indistinto costituisce il dissolvimento non soltanto delle ordinarie differenze e dunque delle gerarchie morali, culturali e civili, ma anche di una democrazia popolare la cui essenza dovrebbe essere la esaltazione delle singole tessere di un mosaico comunitario cementate dal riconoscimento della dignità.

Nel tempo della quantificazione e dell’assolutismo mercantile è inevitabile che la forza del nichilismo diventi un potente fattore di stabilizzazione dell’instabilità con conseguenze facilmente immaginabili che peraltro già vediamo operare intorno a noi, massicciamente presenti nel nostro immaginario culturale e destinate a sommergere perfino quelle isole appartate che si ritenevano, fino a qualche tempo fa, immuni dalle inondazioni della volgarità massificante che veicola le mode ed i costumi riconducibili all’universo dell’unicità del pensiero e dunque al trionfo della modernità. “Età oscura” o “età del ferro”, riprendendo l’antica immagine esiodea, definiva Evola il tempo nostro. E quando le formulazioni assumevano toni di polemica addirittura politica non v’era chi non stigmatizzasse il cosiddetto “barone nero” con epiteti irriferibili e considerasse patetici i suoi seguaci. Il tempo è stato galantuomo ed il neo-totalitarismo, prefigurato ed analizzato da Evola con parole che più allarmanti non avrebbero potuto essere, ben prima che i suoi miasmi invadessero le nostre esistenze, avanza nell’indifferenza di chi non ha la minima percezione delle restrizioni degli spazi di libertà occupati ormai dalle urla delle moltitudini che reclamano attenzione non si sa bene a chi posto che quanti tessono i fili della modernità hanno interesse a far finta di dare parvenza di autonomia e di critica a quanti la reclamano, purché, sia ben chiaro, di un quadro e di un assetto impenetrabile e corazzato a proteggere la cittadella del potere che non ammette contestazioni, quello del denaro che domina le coscienze comprandole con gadget culturali e fedi di nuovo conio.

Spenglerianamente Evola scrive, sempre in “Rivolta contro il mondo moderno” : “Come gli uomini così anche le civiltà hanno il loro ciclo, un principio, uno sviluppo, una fine, e più esse sono immerse nel contingente, più questa legge è fatale. Ciò naturalmente non è cosa che possa impressionare chi sia radicato in quel che, essendo al di sopra del tempo, da nulla saprebbe essere alterato e che permane come una perenne presenza. Anche se dovesse scomparire definitivamente, non è certo quella moderna la prima delle civiltà che si sono estinte, né quella oltre la quale non ve ne saranno altre. Luci si spengono qui e luci si riaccendono altrove nella vicenda di ciò che è condizionato dal tempo e dallo spazio. Cicli si chiudono e cicli si riaprono. Come si disse, la dottrina dei cicli fu familiare all’uomo tradizionale, e solo l’insipienza dei moderni ha fatto loro credere per un momento che la loro civiltà, irradicata più di qualsiasi altra mai nell’elemento temporale e contingente, possa avere un destino diverso e privilegiato”.

Ma è possibile che la fine di un ciclo possa preludere all’apertura di un altro in continuità sia pure essenziale e marginale? E’ un grande tema che proiettato sulla sterminata palude contemporanea sollecita considerazioni antropologiche rispetto alle quali entrano in discussione tutti i domini del pensiero a cominciare da quello religioso (ancorché non ancorato ad una fede data) fino a quello economico-sociale. Ed è su questo scenario che quella che venne definita “lux evoliana” si staglia decisamente sopravanzando anche teorici, ben più acclamati, della crisi e del declino. Evola, contrariamente a quanto è lecito pensare – e soprattutto negli ultimi anni pur non coltivando illusioni a breve termine di possibili rinascite  (ne fanno fede i molti articoli scritti per “Il Conciliatore”, “L’Italiano”, il “Roma”) – immaginava possibilità di invertire la rotta, senza attardarsi nel cercarle in alcune reviviscenze più folcloristiche che altro di sedicenti “tradizionalisti” dell’ultima ora o in una religiosità di seconda mano, giusto quanto osservato in Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo. Immaginava che potesse emergere una minoranza attiva e culturalmente consapevole del compito al quale votarsi dopo aver misurato i passi della decadenza e aver tratto le conseguenze della dissoluzione perfino delle forme elementari connaturate ad una esistenza appena ordinata. Definiva le personalità componenti questo nucleo come  “egregoroi”, vale a dire coloro che vegliano. Ma in numero maggiore, diceva, “esistono individualità che, pur non sapendo in nome di che cosa, provano un bisogno confuso ma reale di liberazione. Orientare tali persone, metterle al riparo dai pericoli spirituali del mondo attuale, condurle a riconoscere la verità, e rendere assoluta la loro volontà a che alcune di esse possano raggiungere la falange delle prime, è ancora il meglio che si può fare”. E, sempre attendendosi ad un rigoroso realismo, aggiungeva: “Ma si tratta anche qui di cosa che riguarda una minoranza e non bisogna illudersi che, per tal via, possa risultare una variazione apprezzabile dei destini complessivi. In tal modo, questa è l’unica giustificazione per l’azione tangibile che ancora possono esplicare alcuni uomini della Tradizione nel mondo moderno, in un ambiente, col quale essi non hanno alcun legame. Per l’accennata azione orientatrice, è bene che tali ‘testimoni’ vi siano, che i valori della Tradizione vengano sempre indicati, anzi in una forma più attenuata e dura, per quanto più l’opposta corrente acquista forza. Anche se oggi questi valori non possono essere realizzati, non per questo essi si riducono a semplici ‘idee’”. E ancora: “Render ben visibili i valori della verità, della realtà e della Tradizione a chi, oggi, non vuole il ‘questo’ e confusamente cerca l’ ‘altro’ significa dare sostegni a che non in tutti la grande tentazione prevalga, là dove la materia sembra essere ormai più forte dello spirito”.

La Tradizione, dunque, assunta non come conato reattivo al “pensiero unico”, ma quale veicolo per l’affermazione di un “pensiero altro” è il lascito evoliano per i  “tempi ultimi”. Una Tradizione, beninteso, vissuta nei suoi valori costituivi e non nei cascami retorici che ad essa pure si associano cui hanno offerto spazio atteggiamenti culturali a dir poco irriguardosi nei confronti dello stesso universo tradizionale. E che può farsi “attiva” soltanto assumendo le fattezze di una “rivoluzione conservatrice”, come suggerisce lo stesso Evola ne Gli uomini e le rovine , in Cavalcare la tigre ed in numerosi altri scritti organici e d’occasione. Nella formula viene in evidenza l’elemento dinamico rappresentato dalla “rivoluzione” che non ha dunque nessuna valenza sovvertitrice e violenta di un ordine legittimo, e quello costitutivo che lo sostanzia, “conservatrice”. Ma conservare che cosa? La Tradizione appunto e ciò che da essa discende facendola vivere – ed è questo il tentativo più arduo – attraverso gli strumenti della modernità senza farsi da questi condizionare o addirittura soggiogare. Conservare la Tradizione e ciò che significa è il solo vero atto rivoluzionario immaginabile. E che da qui possa scaturire una reazione tutt’altro che sterile al totalitarismo del “pensiero unico” è tutt’altro che velleitario ritenerlo.

Lungi dal cristallizzare l’idea di Tradizione, Evola la rilancia come proposta culturale nel tempo della crisi di tutte le credenze e alla viglia del crollo delle ideologie elevate a pratiche quasi mistiche. In un articolo apparso nel “Conciliatore” nel giugno 1971, Evola scrive: “L’introduzione dell’idea della Tradizione vale a liberare ogni tradizione particolare dal suo isolamento, appunto col riportare il principio generatore di essa e i suoi contenuti essenziali a un contesto più vasto, in termini che sono di una effettiva integrazione. A scapitarne, sono solamente le eventuali pretese di esclusivismo settario e di privilegio. Riconosciamo che ciò può recar disturbo e creare un certo disorientamento in chi si sentiva ben al sicuro in una data area ristretta, recintata. Però ad altri la visione tradizionale aprirà più ampi e liberi orizzonti, infonderà solo una superiore sicurezza, a patto di non barare al giuoco: come nel caso di quei “tradizionalisti” che hanno messo mano alla Tradizione soltanto per una specie di condimento alla propria tradizione particolare riaffermata in tutte le sue limitazioni e in tutto il suo esclusivismo”.

La multiforme personalità di Evola si presta, com’è noto, ad interpretazioni varie, diverse e perfino contrastanti. Ma su un aspetto del suo pensiero probabilmente non può esserci difformità di giudizio. Evola – al di là delle sue stesse intenzioni – è l’indiscusso protagonista di una rivolta culturale contro il conformismo del quale la dittatura del “pensiero unico” è l’espressione più macroscopica e letale.

Evola è in buona compagnia, s’intende. Ma la valenza contemporanea delle sue idee è tale da farlo ritenere il riferimento di una visione del mondo che abbraccia, a differenza di altri pur contigui,  i più importanti domini dello spirito e dell’agire, dal sesso (alla cui “Metafisica” – anticipando prodigiosamente gli esiti della cosiddetta “liberazione sessuale” – ha dedicato pagine che sbaragliano la teoria del gender e l’unisex imperante) alla religiosità nelle sue molteplici declinazioni, alla scienza, alla demografia, alla contestazione giovanile ed ai sui miti, alle forme della decadenza.

Quanto è attuale oggi? Domanda inutile. Nei suoi libri è la risposta.

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.