Dopo anni di proletarizzazione diffusa e di incolta massificazione c’è bisogno di ritrovare il senso della bellezza.
Lungi da essere una fuga estetizzante dal reale la Bellezza ha infatti oggi un valore “ricostruttivo” da non sottovalutare, contro tutte le banalizzazioni, quale presa di coscienza, al di là del macchinismo industriale, dell’urbanesimo indifferenziato, dell’omologazione di massa. Ponendosi come discrimine senza tempo, la Bellezza può trovare perfino nella sfida economica e produttiva la sua sublimazione contemporanea, segno di una nuova chiarezza narrativa, di ottimismo, di energia positiva, di forza evocativa, di sperimentazione e partecipazione.
Al punto da scompaginare vecchie distinzioni, in un crogiuolo nel quale cultura alta (e specialistica) e cultura popolare (e di massa) si possano incrociare, magari scioccando gli animi aristocratici.
Nel 1955, Adriano Olivetti, in occasione del discorso inaugurale dello stabilimento di Pozzuoli, dichiarava: “Di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno”.
Kalos kai kagathos, bello e buono, secondo la tradizione dei greci non sono mai disgiunti, identificando il valore assoluto della bellezza, donata dagli dei all’Uomo, con il comportamento morale della bontà.
L’eccellenza passa anche da una nuova consapevolezza estetica, per troppi anni dimenticata, a partire dalle stesse opere architettoniche. La filosofia del bello è l’unico reale ottimismo. Essa è volontà di ritorno all’ordine cosmico.
Ponendosi come discrimine senza tempo, la Bellezza può trovare nella tecnica la sua sublimazione contemporanea, segno di una nuova chiarezza narrativa, di ottimismo, di energia positiva, di forza evocativa, di sperimentazione e partecipazione.
Oggi il web è la culla di questa tensione inconsapevole verso la Bellezza. E’ il livello creativo più immediato, cioè non-mediato, soprattutto giovanile, nel quale i generi si confondono e le scuole storiche perdono di significato per rifondersi ex-novo, in un crogiuolo nel quale cultura alta (e specialistica) e cultura popolare (e di massa) si incrociano, facendo balenare inconsapevoli domande di ordine, di rigore, di forza.
Occorre fare uscire dalla “Rete” queste volontà ed i talenti che le sostanziano, permeando della loro energia l’intera società, contaminando i domini dell’arte, dell’urbanistica, della comunicazione e favorendo un corto-circuito valoriale capace di dare nuove forme alla creatività e alla partecipazione.
Il secondo elemento, in grado di porre un autentico discrimine, è il talento.
A differenza di quanto non credano gli apostoli dell’egualitarismo, il talento non è un limite alla creatività. Nella crisi del bello, la sterilità creativa ha trovato nella negazione delle competenze il proprio alibi. Portare al centro della produzione artistica i fattori formali e sostanziali che stanno alla base di compiuti percorsi formativi, significa dare nuova dignità e nuova consapevolezza a quanti in essa e per essa di trovano ad operare. E significa, nel contempo, ricollegare contemporaneità e tradizione, ricucire antistorici strappi, ritrovare la grandiosità di una Storia, la sua complessità, la sua capacità stupefacente.
Presente e passato così azzerano le distanze. E sola resta la forza evocativa della creatività, che sa ritornare all’essenza della forma e all’orgoglio e alle responsabilità che provengono dall’appartenenza.
L’artista non può infatti rispondere solo a sé stesso. Né l’architetto progettare per il suo piacere estetico. Né l’urbanista inventare dissociandosi dalla realtà.
L’identità è dunque il terzo fattore cruciale. Anche qui non si tratta di ricapitolare, magari elencando stancamente scelte valoriali. I discrimini debbono nascere da un confronto dialettico con la realtà contemporanea: radicamento vs. spaesamento, pathos vs. disincanto, partecipazione vs. egoismo, comunità vs. burocrazia, sacro vs. materialismo, merito vs. egualitarismo, bellezza vs. degrado e così via.
Questo processo di distinzione/integrazione non può non passare da una ripresa d’identità rispetto ad un percorso bimillenario, che ci porta al cuore dell’essenza civile e spirituale del nostro essere.
C’è una vocazione “solare” nella tensione estetica dell’Uomo, che, per quanto oscurata, rimane a ricomprendere luoghi, esperienze, idee, realtà diverse e lontane tra loro: dalle abbacinanti distese del Nord alle avvolgenti atmosfere mediterranee, dal linguaggio dei megaliti alle raffinate architetture dell’antichità, dalle Cattedrali gotiche alle linee pure delle architetture razionaliste, dalla “riscoperta” dei borghi tradizionali alla grandezza delle città d’impronta rinascimentale.Rispetto a questi “paesaggi” la necessità di fare emergere una nuova consapevolezza spirituale, in grado di ricomprendere un lascito storico, andando oltre le vecchie scuole, gli “ismi” usurati, le avanguardie formali, ritrovando essenziali discrimini di valore e di metodo, in cui bello e buono (Kalos kai kagathos) siano al centro. Per essere vincente la sfida della post modernità dovrà partire anche da qui. Ad ognuno di farsene carico. Alle diverse Comunità di incarnare plasticamente i nuovi compiti di un’estetica collettiva, in grado di fare dialogare modernità e tradizione.