Benedetto Croce morì come visse. Lavorando. Il 20 novembre 1952 a Napoli era una giornata uggiosa: scendeva una pioggerellina fitta e insistente. Il grande filosofo era nel suo studio. Aveva dettato una lettera alla figlia Alda e, nonostante la febbre e un malore che aveva avuto nella prima mattinata, era al suo posto nel mondo. Verso le 10 era passato Federico Chabod e si erano intrattenuti su alcune faccende dell’Istituto. Il direttore era andato via e Croce, in attesa dei medici, Rosati e Giordano, era seduto dietro alla finestra e leggeva, forse, il Petrarca. La figlia lo vide chinare il capo. Gli fu praticato un massaggio cardiaco dai sopraggiunti medici. Ma non ci fu nulla da fare. La morte – come aveva scritto lui stesso nelle umili e pur altissime righe del Soliloquio – era sopravvenuta a metterlo a riposo e lui, che non era in “ozio stupido”, non poté far altro che lasciarsi interrompere. Mancavano quindici minuti alle 11: il più grande filosofo del secolo era morto. Ai funerali, sotto una pioggia battente, partecipò tutta Napoli e, nella figura di un commosso Luigi Einaudi, che sapeva di essere Presidente della Repubblica dopo il “gran rifiuto” del suo fraterno amico, c’era tutta l’Italia. La sua grandezza – dirà Mario Soldati – ha iniziato a inseguirci dal giorno dei suoi funerali. E oggi a settant’anni da quel giorno, la sua eredità spirituale, come aveva predetto Raffaele Mattioli, è stata riscoperta dopo la grigia stagione del marxismo politico che cercò di emarginarlo. Può così persino suonare insieme giusto e sbagliato il titolo dell’ultimo libro di Adelphi or ora pubblicato a chiusura dell’edizione delle sue opere curate da Giuseppe Galasso: Soliloquio e altre pagine autobiografiche. Giusto perché il filosofo della “religione della libertà” non ha mai smesso di parlarci, sbagliato perché quel soliloquio è da sempre un colloquio che noi oggi, non più sordi, riprendiamo a riascoltare come si riprende il necessario lavoro usato.
Era il 6 febbraio 2017 quando al Teatro Bellini di Napoli l’attore Toni Servillo leggeva e interpretava queste pagine di Croce che il professor Galasso aveva messo insieme scegliendo davvero, come si usa dire, fior da fiore. La chiave autobiografica è, forse, la migliore per avvicinarsi al pensiero di Croce che ha una grande qualità formativa e custodisce una innata tempra vitale e morale perché nasce in continuo contatto, ricambio e rinfrescamento con la vita e con la storia. Non c’è immagine più sbagliata, infatti, di un Croce olimpico, distante e distaccato dalla vita, dalle sue angosce e ferite mortali. Come potrebbe essere diversamente visto che parliamo di un uomo che da ragazzino perse madre, padre e sorellina nel terremoto di Casamicciola e lui stesso passò una notte intera sotto le macerie di Villa Verde con la testa che emergeva dal disastro e guardava le stelle che scintillavano indifferenti in cielo? “La leggenda della mia impassibilità è una leggenda – scriveva già lo stesso Croce a Girolamo Vitelli –. Io procuro di non perder la testa: ecco tutto. E nondimeno ciò mi è costato e mi costa sforzi dolorosi”. E’ da questo dolore persistente – dall’angoscia “selvatica e fiera” che si è fatta “domestica e mite” – e non da Hegel che nasce la sua filosofia o la filosofia e basta. Lo dirà ancora lui: “Filosofavo, spinto dal bisogno di soffrir meno e di dare qualche assetto alla mia vita morale e mentale”. Poi, certo, anche Hegel, Kant, naturalmente Vico, Bruno e Machiavelli e De Sanctis e tutta la “filosofica famiglia” perché è bene prendere in mano e saper usare i ferri del mestiere che, però, insegnano soprattutto che la filosofia non nasce dalla filosofia ma dalla vita, esattamente come il pane non si fa con il pane ma con la farina. Insomma, Croce che canzonava i professori di filosofia non era un accademico ma uno dei grandi filosofi dell’umanità e un grande italiano la cui opera per noi, oggi, è decisiva perché da un lato con il suo connaturato pluralismo – le celebri “distinzioni” – disinnesca il dispositivo totalitario che c’è sempre nella cultura moderna e dall’altro con l’esempio della sua vita civile ci mostra come non solo teorizzò la libertà ma la difese opponendosi alla tracotanza del Potere.
Quando Giolitti formò nel 1920 quello che sarebbe stato il suo ultimo governo volle alla Pubblica istruzione Croce. Lo statista – confessò Croce – lo guardava prima con scetticismo, perché, evidentemente, al grande politico esperto e navigato la fama di filosofo di Croce destava qualche sospetto. Però, quando lo vide all’opera, attivo, propositivo, concreto, pronto a tagliare spese inutili e far economie ebbe a dire: “Ma questo filosofo ha molto buon senso!”. E’ un aneddoto noto nel quale, però, c’è molta più verità di quanto non si sia disposti ad ammettere. La conquista dell’opera di Croce è, infatti, l’affratellamento della filosofia con la storia e la liquidazione da una parte della filosofia come sterile esercizio accademico e dall’altro il superamento del vaniloquio metafisico. Per Croce la filosofia, come ha sempre ripetuto Galasso, è storia ma a sua volta, come precisavano Carlo Antoni e Raffaello Franchini, la storia non è solo filosofia perché è passione, vitalità, intuizione, poesia, religione, azione, politica, morale. Compito del pensiero è proprio quello di saper distinguere le attività umane nel supremo interesse della custodia della libertà di cui nessuno – né un uomo, né uno stato, né una chiesa, né una scienza – può essere il padrone. Un compito inesauribile che Croce, che diceva di essere come il Vesuvio d’inverno che sopra ha la neve e sotto il fuoco, fece con passione e rigore. Il nostro compito oggi non è celebrarlo ma studiarlo. Lui, antiretorico per eccellenza, così avrebbe voluto.