• 4 Luglio 2024
Cultura

Fra gli studiosi della Divina Commedia uno dei problemi che più ha suscitato diatribe e discussioni, è stato innegabilmente quello dei rapporti culturali tra Oriente e Occidente ai tempi dell’Alighieri e – in particolare – quello delle sorprendenti analogie che si riscontrano tra il capolavoro dantesco da un lato, e il contenuto delle tradizione islamiche relative al «viaggio notturno» e all’«ascensione ultraterrena» (al-isrâ’ wal-mirâj) di Maometto dall’altro.

Ora, che ci si consideri degli specialisti o, più semplicemente, degli estimatori del grande poema, non è più consentito – a quasi un secolo dalla apparizione del fondamentale saggio di Miguel Asín Palacios su La escatologia musulmana en la Divina Comedia perseverare in quell’atteggiamento che si è troppo spesso sfoderato a proposito della questione delle fonti islamiche dell’opera dantesca, quasi si trattasse di una mera curiosità partorita da un manipolo di stravaganti orientalisti in vena di divagazioni erudite.

In questa sede, senza alcuna pretesa di esaustività, mi limiterò ad attirare l’attenzione su alcuni degli argomenti più significativi che sono stati addotti, da una schiera di autorevoli dantisti, a dimostrazione dell’esistenza di un nesso genetico (e fors’anche più di uno) tra la Divina Commedia e la composita messe di pie leggende musulmane incentrate sulla topografia dell’oltretomba.

Le fonti

È opportuno premettere al nostro ragionamento una breve considerazione in ordine, per l’appunto, al concetto di «fonte», che, in ambito storico e filologico, riveste una precisa accezione tecnica. Possiamo infatti parlare di «fonte» soltanto in presenza di una trasmissione accertata in ragione della quale certe informazioni pervengono da un soggetto a un altro attraverso testi scritti, documenti iconografici o testimonianze orali, comunque riconducibili a un momento storico (e a un contesto) determinati.

La prima domanda che si pone è dunque la seguente: è lecito evocare il termine «fonte» quando si affronta il tema dell’origine extra-europea di certi elementi sottesi all’infrastruttura che sorregge il capolavoro di Dante, con particolare riferimento all’Inferno?  Questo interrogativo è stato, nel tempo, oggetto di ampie disamine da parte di vari specialisti della cultura islamica, quali E. Blochet, José Munoz Sendino, Giuseppe Gabrieli, Enrico Cerulli et alii.

Tutti questi autorevoli interpreti si sono preoccupati di verificare se e in quale misura la conoscenza del mondo musulmano abbia giocato un ruolo nella visione mitopoietica di Dante e hanno contribuito, in tal modo, con i loro studi pionieristici, a colmare una lacuna venutasi a creare a seguito dell’eccessivo eurocentrismo della dantistica ufficiale. Ed è proprio a Giuseppe Gabrieli, dottissimo bibliotecario dell’Accademia dei Lincei, che spetta il merito di aver riecheggiato per primo, in Italia, le tesi espresse dal suo collega spagnolo Asín Palacios. Gabrieli che – nel 1924 – dà alle stampe un aureo volumetto dal titolo Dante e lOriente, dove, pazientemente, egli enumera ad una ad una le principali nozioni storiche, geografiche e letterarie possedute da Dante Alighieri in merito al complesso universo musulmano.

A suscitare gli entusiasmi dei fautori della tesi di un Dante «islamizzante» non fu, però, soltanto un insieme di smaccati parallelismi tra il viaggio ultraterreno del sommo poeta e quello attribuito dalla tradizione al profeta Maometto, ma soprattutto l’associazione, tipica della Divina Commedia, di immagini e motivi escatologici eccentrici rispetto al più consueto patrimonio biblico o al deposito della civiltà greco-romana.Le coincidenze sono evidenti in questa concezione architettonica dei due inferni: certo, il numero dei ripiani non è esattamente il medesimo, ma questa discrepanza accidentale, del tutto logica in ogni adattamento, risulta trascurabile se confrontata con altre più notevoli analogie […]. Dante avrebbe potuto distribuire il suo abisso infernale in tanti cerchi principali quanti sono i secondari; con ciò non ne avrebbe alterato sostanzialmente la topografia, e tuttavia preferì seguire il modello musulmano nel suo criterio di grandi suddivisioni generali  […], poiché questo criterio gli serviva meravigliosamente per quello che i dantisti chiamano la struttura morale dell’inferno, cioè per la distribuzione secondo la classificazione etica dei peccati.

Il leitmotiv della «discesa agli inferi»

Il grande pensatore francese René Guénon, che si convertì all’Islam con il nome di ‘Abd al-Wâhid Yahyâ, nel suo celebre saggio dedicato a Lesoterismo di Dante, ci ricorda come il viaggio all’inferno del poeta fiorentino si configuri come una sorta di catabasi, la quale si dipana secondo delle modalità che si richiamano espressamente a quelle di una cerimonia di «iniziazione».

D’altronde, morte e discesa nell’Ade da una parte, resurrezione e ascensione dall’altra, rappresentano notoriamente le fasi complementari di ogni iniziazione, la prima – cioè la catabasi – essendo la necessaria premessa alla risalita – o anabasi – nell’alto dei Cieli. Anche la tradizione islamica, sulla scorta di quanto emerge dal versetto 2 della sura XVII, ritiene che al profeta Maometto, in virtù delle sue speciali prerogative, sia stato concesso il privilegio di visitare il regno infernale, e di essere elevato attraverso le sfere celesti al cospetto di Allâh, per poi far ritorno sulla terra, corroborato da questa esperienza unica nel suo genere.  “Lode a Colui che ha rapito il Suo servo di notte dal Sacro Precinto [la Mecca] alla Moschea Estrema [Gerusalemme].”

Degno di nota è il fatto che, stando al Corano e alle successive elaborazioni del mirâj di Maometto, il «viaggio» del profeta – che è insieme fisico e spirituale – si svolga dopo il tramonto del sole, vale a dire nel momento della giornata più favorevole all’irruzione del sovrasensibile.

Ragion per cui il termine mirâj (da cui l’italiano «miraggio») ha finito per indicare la natura visionaria del rapimento estatico di cui Maometto fu protagonista, quando, in un batter di ciglia, per volere di Allâh, si trasferì dalla Mecca a Gerusalemme, per poi salire in cielo in groppa a un meraviglioso destriero chiamato Burâq, dal volto di donna e dalla coda di pavone.

Durante la sua visita nell’Aldilà, Maometto è accompagnato da due guide: la prima risponde al nome dell’angelo Gabriele, con il quale egli compie la parte iniziale del tragitto. Successivamente, egli è affiancato anche da Mosè. Lungo il percorso, Maometto incontra alcuni dei messaggeri che lo avevano preceduto (compreso Gesù) e da tutti riceve una sorta  di investitura ufficiale e di benedizione.

I risvolti mistici

Nella storia della spiritualità musulmana, molti sono stati i mistici che,  affascinati dalla carica salvifica di questa narrazione, hanno operato una – più o meno conscia – assimilazione tra il viaggio ultraterreno del profeta e il proprio «sentiero» (sulûk) di realizzazione interiore, volto a raggiungere l’annichilazione nell’oceano senza rive del divino. Il più noto fra questi fu, senz’altro, il persiano Abû Yazîd al-Bistâmî (m. 874 d.C.), che reinterpretò in modo originale il mirâj di Maometto alla luce dello sforzo ascetico proprio di chi si impegna a trascendere i limiti che lo separano dall’Origine Prima onde tornare a ricongiungersi con essa. “Vidi che il mio spirito veniva trasportato nei cieli […]. Poi divenni un uccello, il cui corpo era fatto di Unicità e le ali di Eternità e seguitai così a volare nell’aria dell’Assoluto.”

Una ancor più suggestiva rappresentazione dell’ascesa ultramondana sulle orme del profeta la si ritrova nel Libro del Viaggio Notturno verso la Dimora dei Prigionieri [dAmore] del grande maestro sufi arabo-andaluso Muhyî al-Dîn Ibn ‘Arabî (m. 1240 d.C.). Anche in questo caso, il trasferimento dell’autore dalla nativa Spagna a Gerusalemme si intreccia con l’archetipo dell’avvicinamento elevativo a Dio. A far da guida al mistico viandante è ancora una volta un angelo. Secondo Ibn ‘Arabî , ogni cielo, con il pianeta che gli è proprio, corrisponde allegoricamente a un grado della gerarchia invisibile preposta a sorreggere l’universo intero ed è governato da un profeta, che fornisce al «viaggiatore astrale» indicazioni e chiarimenti sulla sua destinazione ultima. Una volta pervenuto all’apice del suo itinerario, Ibn ‘Arabî immagina che il velo che lo separa dalla Verità cali e gli riveli il Trono di Dio, l’Albero di Loto che sorge all’estremo limite del paradiso, e la «Tavola ben Custodita» (al-lawh al-mahfûz) su cui è inciso ab aeterno l’archetipo del Santo Corano.

“Quindi si sollevò il velo della Grazia e brillò per me l’Unità della Misericordia/Quindi si sollevò il velo eterno e brillò per me l’Unità dell’Immutabile/Quindi si sollevò il velo delle Luci e brillò per me l’Unità dei Segreti.”

In un altro passo della sua opera, ricorrendo a un gioco di parole, sempre Ibn ‘Arabî afferma che il «viaggio» (safar) è sempre, per definizione, un «disvelarsi» (isfâr) della nostra natura più profonda e tutti gli esseri, seguendo l’esempio di Maometto, sono come immersi in uno stato di perpetuo movimento, coinvolti in una cosmica avventura, dal momento che la stessa «esistenza trova il suo fondamento nel moto. Il viaggio non cessa mai, tanto nel mondo superiore quanto in quello inferiore».

Autore

Angelo Iacovella (Roma, 1968) è docente di Lingua e Letteratura Araba presso l’Università degli Studi Internazionali-Unint di Roma. Ha pubblicato, per i tipi dell’Istituto Italiano di Cultura di Istanbul, Il Triangolo e la Mezzaluna (1997), uno studio sui rapporti tra la massoneria italiana e l’Impero Ottomano (edito anche in turco). È autore di numerosi saggi e traduzioni di testi arabi medievali, tra cui L’epistola dei settanta veli di Muhyî-d-Dîn Ibn al-‘Arabî (Voland), nonché Il pettine e la brocca. Detti arabi di Gesù (Il leone verde). Tra i suoi contributi più recenti alla storia del sufismo, la traduzione integrale, con introduzione e note, dei detti del mistico persiano Abû Yazîd al-Bistâmî (Le parole dell’estasi, Napoli, Istituto di Studi Filosofici, 2011).