• 4 Luglio 2024
Politica

Mentre mi accingo a recensire il libro di Alessandro Orsini sull’Ucraina scorrono sui teleschermi immagini orribili, raccapriccianti e piovono notizie drammatiche da quelle zone in guerra ormai da sette lunghissimi mesi. Si scoprono agghiaccianti fosse comuni con centinaia di cadaveri, militari e civili fatti a pezzi e torturati in una escalation di barbarie. Città bombardate, distrutte dai missili, blindati squassati dai droni, macerie, chilometriche file di disperati accalcati alle frontiere, brandelli di carni bruciate dal fuoco dei cannoni. E mentre tutto arde e brucia in una terra contesa da decenni, neppure un segno di resipiscenza, una qualche forma di trattativa, di diplomatica iniziativa che contempli una tregua, un cessate il fuoco che apra la strada ad un compromesso, ad un barlume di pace. Ormai, di questo sembra che a nessuno interessi. Solo parole di circostanza, e null’altro. Una sorta di assuefazione ad un dato sovrastato da una sua intrinseca ineluttabilità. E in questa “ineluttabilità” tutto diventa più crudele e violento. Come se la guerra, nella sua efferatezza, non fosse di per sé già fin troppo crudele e violenta. Le parole pronunciate da Putin che annuncia il richiamo dei riservisti per infoltire le truppe impegnate sul campo di battaglia e minaccia il ricorso alle armi nucleari rendono il quadro ancor più fosco. Ormai è chiaro: sulla pelle del popolo ucraino, dopo l’aggressione ordita dal Cremlino, non si combatte soltanto per rivendicare porzioni di territorio conteso tra Mosca e Kiev. Si combatte una guerra ben più subdola e complessa tra gli Stati Uniti e la Russia. Tra Occidente e Russia. Tra La Nato e lo Zar. Nel cuore dell’Europa.

In questo scenario apocalittico il libro di Alessandro Orsini, docente di politica internazionale e tra i più accreditati studiosi della Russia, ci offre elementi importanti per una riflessione ad ampio raggio sulle cause della guerra e sulle manchevolezze della politica e della diplomazia. La sua è una fervente autodifesa rispetto a chi, dai canali televisivi, nei talk show e nelle Università, immemori culle del libero pensiero, lo ha messo sulla graticola e bersagliato, fino ad espellerlo come fosse una spia dei russi o, peggio, un intellettuale assoldato da Putin.

 Nella premessa al libro, Orsini rivendica il metodo scientifico del suo lavoro di indagine e di ricerca. E’ il metodo che il sociologo Max Weber chiamò “comprendente”, ossia l’approccio con cui si cerca di osservare la persona per comprendere il senso che attribuisce a ciò che fa.

“Il punto focale è il modo in cui gli individui interpretano le loro stesse azioni – scrive Orsini – Il punto focale è il modo in cui Putin interpreta le sue stesse azioni. Cerco di entrare nella mente di Putin per guardare la Nato con gli occhi dei generali russi, proprio come Weber fece con i primi imprenditori calvinisti nel suo L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”.

Fedele all’idea che la teoria sociologica sia la chiave per comprendere il mondo, lo studioso si addentra nell’esame analitico delle varie questioni che hanno reso il rapporto tra Russia e Stati Uniti sempre più teso nel corso degli anni, dalla caduta del Muro di Berlino ai giorni nostri. “Putin ha invaso l’Ucraina per frenare l’arretramento della Russia dopo la caduta del Muro di Berlino. Negli ultimi trent’anni, la Russia è arretrata costantemente, mentre il blocco occidentale non ha fatto altro che avanzare. Per comprendere le ragioni che hanno spinto Putin a invadere l’Ucraina, dobbiamo ricostruire i fallimenti della Russia dall’ascesa di Eltsin fino ai nostri giorni”. In quest’ottica Orsini distingue due periodi: il periodo nero, che coincide con gli anni della presidenza di Boris Eltsin (1991-1999) e il periodo di recupero, che inizia con l’ascesa di Putin nel 2000.

Il primo periodo fu “colmo di umiliazioni” per la Russia. Sul piano internazionale toccò il punto più basso con il bombardamento della Nato in Serbia (24 marzo-10 giugno 1999). Eltsin era fermamente contrario a quell’intervento militare, ma dovette subirlo perché non era abbastanza forte per opporsi all’Occidente. Scrive Orsini: “La Nato attaccò la Serbia per imporre a Slobodan Milosevic di firmare un accordo tecnico-militare per la fine della guerra in Kosovo. Il bombardamento avvenne senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Insieme alle infrastrutture militari di Belgrado, la Nato devastò anche quelle civili, inclusi ponti, industrie, ospedali, parchi pubblici, mercati, impianti per la produzione di energia, strade e ferrovie. I circa diecimila raid della Nato durarono 78 giorni e costarono la vita a circa 500 civili, secondo le stime di Human Rights Watch. Le stime del governo di Belgrado, invece, parlano di un numero di serbi deceduti sotto le bombe della Nato compreso tra i 1200 e i 5000…..La Nato utilizzò anche armi poco convenzionali, come le 355 bombe a frammentazione lanciate dagli Stati Uniti senza alcuna remora giacché la Casa Bianca non aveva firmato il trattato di Ottawa del 3 dicembre 1997, o convenzione internazionale per la proibizione delle mine antiuomo, che bandisce quelle bombe. Putin accusava gli americani di voler punire la Serbia per la sua vicinanza alla Russia e ricordava che l’atteggiamento antiserbo degli americani era antico. Durante la guerra di indipendenza croata (1991-1995), ad esempio, la Casa Bianca aveva sostenuto la Croazia contro la Serbia con importanti aiuti militari che sarebbero stati decisivi nella liberazione delle aree della Krajina e della Slavonia e, quindi nella vittoria finale di Zagabria su Belgrado…….Nella prospettiva occidentale, l’intervento della Nato è stato causato dagli eccidi di Milosevic contro i civili nel Kosovo, in particolare il massacro del 15 gennaio 1999 a Racak, dove 45 albanesi kosovari furono uccisi dalla forze speciali serbe. La prospettiva di Putin è diversa. A suo dire, l’intervento contro la Serbia era stato organizzato dal blocco occidentale per mettere in ginocchio un Paese filo-russo e colpire gli interessi di Mosca nel suo momento di maggior debolezza: una tesi condivisa anche da alcuni storici italiani. La Serbia era un alleato fraterno della Russia per ragioni politiche, economiche e culturali: entrambi condividono l’appartenenza al mondo ortodosso e l’uso dell’alfabeto cirillico. I maggiori intellettuali americani concordano sul fatto che il bombardamento della Serbia abbia spostato l’opinione pubblica russa su posizioni ostili all’Occidente”.

Il periodo nero fu segnato anche dalla prima guerra cecena che terminò con la sconfitta e il ritiro delle truppe di Eltsin oltre che con la bancarotta  del 1998. Nell’anno del bombardamento della Serbia, la Russia ricevette  “un’altra umiliazione per mano occidentale”. Fu Madeleine Albright, segretaria di Stato americano, a progettare di inglobare nella Nato i principali Paesi del Patto di Varsavia. Un inglobamento studiato e attuato mentre la Russia era in ginocchio. “Gli atlantisti affermavano di aver voluto inglobare quei Paesi nella Nato per stabilizzare l’Europa orientale e proteggerla dall’instabilità proveniente dalla Russia. Putin rispondeva che la Nato non era mossa da altruismo e che aveva approfittato del periodo nero della Russia per indebolirla ulteriormente”.

Tra il 1999 e il 2004 la Nato ha assorbito la Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Romania, la Slovacchia, la Bulgaria e la Slovenia. Rispetto a questi ingressi nella Nato dei Paesi confinanti con la Russia, Putin ha sempre espresso il suo disappunto. Ricorda Orsini: “Gli atlantisti sostenevano che, dopo l’attentato contro le Torri Gemelle del 2001, l’allargamento della Nato avrebbe migliorato la lotta contro il terrorismo. Putin pensava che questa fosse una scusa per giustificare un’operazione rivolta a conquistare nuovi territori ai danni della Russia. Il terrorismo islamico – osservava indispettito -continuava a mettere a segno i suoi colpi nonostante l’allargamento della Nato. Putin fece riferimento all’attentato jihadista di Madrid dell’11 marzo 2004 e alla guerra in Afghanistan. In entrambi i casi, l’allargamento della Nato – obiettava – non era stato di giovamento alcuno”. Poi, nel 2009, è stata la volta di Albania e Croazia. Nel 2017 del Montenegro e nel 2020 la Macedonia del Nord è diventata il trentesimo membro della Nato. “Questa espansione sottraeva definitivamente alla Russia i Paesi un tempo a lei legati”.

Con l’ascesa al potere di Putin (2000) inizia il periodo di recupero. Dopo la bancarotta, e le ripetute “umiliazioni”, i russi videro in Putin, secondo Orsina, “l’uomo capace di risollevare l’economia, ma anche di stabilizzare la politica interna e difendere l’onore perduto della Russia sul piano internazionale”. Nel libro vengono approfondite le fasi in cui il crescente potere di Putin impatta con gli interventi americani in Iraq, nello Yemen

e nella Georgia. La penetrazione della Nato in quest’ultimo Paese ha provocato, secondo lo studioso, “le ire di Putin” e l’invasione militare dei russi, e ha favorito la nascita di due repubbliche autonome filo-russe: l’Ossezia del Sud e l’Abcasia, che affaccia sul Mar Nero. Quel che è accaduto in Georgia nel 2008 presenta analogie importanti con quello che sarebbe accaduto in Ucraina nel 2014. La svolta è stato il summit della Nato a Bucarest, il 2-4 aprile 2008. Il documento finale di quel summit conteneva una dichiarazione inaccettabile per Putin: “La Nato accoglie le aspirazioni euro-atlantiche dell’Ucraina e della Georgia di diventare membri della Nato. Noi conveniamo oggi che quei Paesi diventeranno membri della Nato”. Putin tuonò che l’ingresso dell’Ucraina e della Georgia nella Nato avrebbe rappresentato una minaccia diretta alla sicurezza nazionale della Russia. Tra le ulteriori “umiliazioni” di cui si è lamentato lo Zar di Mosca ci sono poi le vicende della Libia, con i bombardamenti e l’uccisione di Gheddafi nel 2011, la guerra per procura in Siria nello stesso anno e le sanzioni americane all’Iran, uno dei migliori partner politici e commerciali della Russia. Tra le questioni delicate che hanno peggiorato i rapporti tra Mosca e Washington, Orsina annovera anche la crisi del Venezuela del 2019, quando il filo-americano Juan Guaidò, presidente dell’Assemblea nazionale, si è autoproclamato presidente del Venezuela in contrapposizione al presidente filo-russo Maduro.

In tutti questi precedenti, elencati e sviscerati dall’autore con dovizia di particolari e documenti alla mano, Orsina individua la chiave per la weberiana analisi “comprendente” delle ragioni di Putin nella guerra scatenata contro l’Ucraina. Nello schema di Orsina incidono, altresì,  numerose cause interne o domestiche.  Ne indica solo cinque in particolare: la rivoluzione del 2014 contro Janukovyc; il fallimento degli accordi di Minsk; le violenze contro gli ucraini filo russi; il traguardo della Nato inserito nella Costituzione ucraina; le esercitazioni della Nato in territorio ucraino.

La prima causa interna dell’invasione è stato il rovesciamento del regime filo-russo in Ucraina in seguito ad una serie di manifestazioni contro la decisione del governo di sospendere gli accordi commerciali che avrebbero legato più strettamente l’Ucraina all’Unione Europea. “La società ucraina si divise tra i sostenitori dell’Unione europea e quelli della Russia. Il 22 febbraio 2014 il presidente Viktor Janukovyc viene messo in fuga e lascia il Paese. La rivolta contro di lui fu sostenuta dagli Stati Uniti. “Putin – annota Orsina – sentì di aver subito un’altra umiliazione per mano del blocco occidentale. Per paura che le proprie basi militari cadessero nelle mani della Nato, Putin invase la Crimea, dove ha una importantissima base navale a Sebastopoli. Una volta annessa la Crimea, la Russia è stata punita dal blocco occidentale con le sanzioni e l’esclusione dal G8. Il rovesciamento di Janukovyc provocò lo scoppio della guerra civile nel Donbass, composto dagli oblast’ di Donetsk e Lugansk. Il 14 febbario 2014 i separatisti ucraini filo-russi hanno celebrato un referendum per l’indipendenza riportando una vittoria molto ampia (80% Sì contro 20% No). L’indipendenza del Donbass fu riconosciuta soltanto da Russia, Bielorussia, Nicaragua, Sudan, Siria, Venezuela e Repubblica Centrafricana. Secondo i dati Ocse, la guerra civile nel Donbass è proseguita provocando circa 14 mila morti dal 2014 fino al giorno dell’invasione russa”. Sul piano interno, l’Ucraina era un Paese diviso anche dal punto di vista etnico-politico, con la parte orientale prevalentemente russofona e russofila ben prima che scoppiasse la guerra civile nel 2014.

Spunta ancora, nell’analisi di Orsina, il taglio sociologico teso a scrutare nella mente di Putin e sondarne i processi di pensiero: “Putin è completamente identificato con lo Stato che rappresenta. La difesa dello Stato russo ed essa soltanto è stata la pietra angolare della sua vita e del suo operato. Gli scopi etici e gli effetti pratici della sua missione politica sono tutti ancorati qui….La sua personalità è fusa nella cosa pubblica e al suo servizio. Il fatto che Putin abbia instaurato un regime basato sulla repressione brutale del dissenso non muta questa realtà di fatto. Ora, nel suo pathos inumano, questa dottrina politica ed esistenziale deve aver avuto, per la psicologia di Putin che è conquistata dalla sua coerenza, soprattutto una conseguenza: il sentimento di un inaudito senso dello Stato che lo porta a concepire l’esistenza come un mezzo per accrescere la sua potenza. Era proprio questa la promessa elettorale che Putin aveva fatto ai russi nella campagna per le elezioni presidenziali del 2000: arrestare il declino della Russia attraverso un massiccio investimento nell’esercito. Se la Nato avanza con le bombe – questo è stato il suo ragionamento – è con le bombe che dovrà arretrare”.

Interessante e stimolante è la seconda parte del testo dove Francesco Orsina sfoggia tutta la sua competenza in politica internazionale per rispondere alle critiche di “filo-putinismo” piovute addosso ai critici delle politiche espansive della Nato in Ucraina. Al contrario, “studiare i meccanismi che innescano la violenza politica, sia essa il terrorismo o l’avvio di una guerra, è fondamentale per chiunque operi in favore della pace”, è la sua idea di fondo. Di qui l’obiettivo apertamente perseguito nel libro di “fornire ai lettori un apparato concettuale per criticare la condotta degli Stati Uniti in modo più incisivo”, attraverso le tesi del realismo “offensivo”, teoria strutturale di John Mearsheimer, che individua nella paura il primum movens della politica mondiale (“Le grandi potenze non sarebbero in competizione tra loro se la politica internazionale fosse soltanto un mercato di scambi economici. Il pericolo della guerra, infatti, è ineliminabile, non a causa della natura umana, come scriveva Hans Morgenthau, ma a causa dell’architettura del sistema internazionale. Questo scatena la competizione per la sicurezza, che spinge gli Stati, concepiti come attori razionali, a lottare per aumentare continuamente la propria quota di potere nel sistema internazionale”).

Come pure interessante è la ricostruzione della promessa della Nato a Gorbacev, scomparso recentemente, che non si sarebbe espansa verso Est in cambio del suo consenso alla riunificazione della Germania nella sfera d’influenza dell’Europa occidentale. Come abbiamo visto, è avvenuto l’opposto. Ma quella promessa ci fu oppure no? Il dibattito, confessa Orsini, è controverso. Ma lo studioso si fa aiutare da Mary Elise Sarotte, professoressa di storia alla Johns Hopkins University, che alla questione ha dedicato un libro importante, Not One Inch: America, Russia, and the Making of Post-Cold War Stalemate, pubblicato nel 2021. Più che di una “promessa”, Sarotte parla di una “ipotesi” da discutere. All’epoca dei fatti Putin lavorava proprio nella Germania comunista come agente del Kgb. Che cosa accadde dopo l’ipotesi avanzata dagli americani? Sarotte, poggiando sulle dichiarazioni di Robert Gates, che all’epoca era viceconsigliere alla sicurezza nazionale del presidente americano, spiega che i negoziati andarono avanti e che gli Stati Uniti decisero di offrire tanti soldi alla Russia in cambio della Germania dell’Est senza però fare nessuna promessa circa l’espansione della Nato. Putin, dal canto suo, ha sempre negato che i fatti si siano svolti così e giura che l’Occidente non ha mantenuto la promessa.

Sulla espansione della Nato, ricorda sempre Orsina, si è pronunciato anche Hanry Kissinger. In un articolo pubblicato dal Washington Post il 5 marzo 2014, l’ex Segretario di Stato degli Stati Uniti ai tempi di Nixon  e Ford, scrive :”Tutta la discussione sull’Ucraina attiene allo scontro. Ma sappiamo dove stiamo andando? Nella mia vita ho visto quattro guerre iniziate con grande entusiasmo e sostegno pubblico, per tutte loro non sapevamo come concluderle e da tre di loro ci siamo ritirati unilateralmente. La prova di valutazione della politica è come finisce una guerra e no come inizia”. L’idea chiave di Kissinger, sottolinea Orsina, è che l’Ucraina debba rimanere neutrale e diventare un ponte tra la Russia e l’Europa. “Troppo spesso – scrive Kissinger – la questione Ucraina è posta come una resa dei conti: se l’Ucraina si congiunga all’Est o all’Occidente…L’Occidente deve capire che per la Russia, l’Ucraina non può mai essere un Paese straniero”. Concetti che in qualche modo anticipano quel che persino Papa Francesco, in un’intervista del 3 maggio 2022, ha detto : “L’abbaiare della Nato alla porta della Russia [ha suscitato] un’ira [della Russia] che non so dire se sia stata provocata, ma facilitata forse sì”.

Autore

Giornalista e scrittore, ha ricoperto importanti incarichi pubblici. E’ stato sindaco di Colleferro per tre mandati e presidente della Provincia di Roma. Parlamentare del centrodestra per due legislature, è stato Sottosegretario alle Infrastrutture durante il governo Berlusconi e presidente della Commissione Lavoro alla Camera dei Deputati. Nella lunga esperienza di amministratore ha ricoperto il ruolo di vicepresidente dell’Anci (Associazione nazionale dei Comuni italiani) e dell’Upi (Unione Province italiane). Ha fatto parte del Cda del Formez. E’ membro del Consiglio direttivo dell’Eurispes. Autore di numerosi saggi e collaboratore di varie riviste, durante la carriera giornalistica è stato, tra l’altro, condirettore del Secolo d’Italia e di Linea. Nel 2020 ha fondato e diretto il mensile “Il Monocolo”.