Siamo i prodotti maturi, sul punto di marcire addirittura, della secolarizzazione. Con un minimo di attenzione abbiamo la possibilità di rendercene conto quotidianamente. La spiritualità ed i comportamenti ad essa connessi sono pressoché svaniti. Si è avventata sulla nostra vita una sorta di tormenta che non si placa. E dai comportamenti delle generazioni più giovani traiamo auspici devastanti in vista del nostro futuro. Così, una festività di pacificazione come il Santo Natale diviene simbolo del materialismo pratico di fronte al quale le organizzazioni religiose e laiche, ma costituite da credenti, si mostrano impotenti.
La Chiesa cattolica è quella che maggiormente ne fa le spese contagiata, da oltre mezzo secolo, dal quello “fumo di Satana”, come Paolo VI definiva la tendenza alla laicizzazione penetrata nella Casa di Dio.
Anche quest’anno, da quanto le indagini ed i sondaggi ci fanno intendere, le chiese nel giorno della Natività saranno più vuote, in coerenza con quanto constatiamo tutto l’anno. E con esse conventi e seminari segneranno una desertificazione mai registrata. Le vocazioni sono scarse, quasi nulle in Occidente che deve attingere religiosi nel cosiddetto Terzo Mondo, soprattutto in Africa da dove seminaristi e giovani sacerdoti si spostano nelle nostre parrocchie e tengono aperti conventi che un tempo erano gremiti di giovani e vecchi religiosi. Certo che nella Chiesa si fa strada la fine del celibato dei preti e la consacrazione delle donne a svolgerne le funzioni, imperiosamente pretendendo il ministero eucaristico nel nome della “parità” di genere, non c’è speranza che la rotta cambi.
Ma c’è dell’altro che induce al pessimismo.
Il sentimento di pace e di condivisione mai come di questi tempi e nell’ultimo anno in particolare, è del tutto abrogato a vantaggio delle guerre che minano i destini del mondo al punto di prevedere a breve l’innesco di un Terzo conflitto mondiale che, a ben vedere, si sta già combattendo “a rate” in molte e varie aree del Pianeta.
Nelle private vite dei cittadini un caotico e disperante atteggiamento di dolore si tocca con mano quotidianamente nelle forme della cattiveria e della violenza. A farne le speso sono in particolare le donne, ma quando, come avviene, ci si ammazza con una costanza impressionante, negli stessi nuclei familiari, vuol dire che il primato della vita è andato in pezzi. Non si fa in tempo a stilare statistiche di donne e uomini assassinati nelle loro abitazioni per i motivi più vari che bisogna aggiornarle, mentre le giovani generazioni traggono “giovamento” dalla furia iconoclasta che fa strame del rispetto e della tolleranza.
Rullano, come tamburi di guerra, le sguaiate grancasse dell’avidità e del consumismo, mentre la carità si è fatta talmente piccola da diventare invisibile. E nonostante tutto, il tormento della povertà, sotto le forme della disoccupazione e della miseria dei “dannati della Terra”, non alleggerisce gli animi che si sono appesantiti portandosi nel cuore il fardello dell’ignavia e dell’indifferenza. Udendo il tetro rumoreggiare delle armi più sofisticate e micidiali sembra che a nessuno importi di far cessare il fuoco. Non si sentono campane (il cui suono è stato dichiarato di recente “bene culturale” dall’Unesco), ma soltanto schiamazzi sconnessi che sanno di indifferenza rispetto a quanto accade intorno a noi.
Vorremmo gioire, almeno in questi giorni, ma ce lo vieta la nostra stessa coscienza. E così il nostro Natale, ventiquattresimo del Terzo Millennio Cristiano, si affolla delle orgiastiche esagerazioni consumistiche che offendono non soltanto chi poco ha, ma anche chi dovrebbe provvedere al benessere di tutti e si scontra con la propria impotenza.
Ricordo, in questi giorni che ci avvicinano al Natale, la gioia familiare che allargava i nostri sorrisi quando ero bambino e nelle case alla bell’e meglio riscaldate con camini striminziti, grandi o sontuosi, a seconda delle dimore, si respirava un’aria di gioia autentica, si avvertiva un suono lieve, un’armonia di pace mentre la mamma, le zie, le nonne, felicemente in accordo, preparavano saporite pietanze, incominciando con i dolci fatti in casa che c’ingolosivano fino al giorno della Vigilia ed aspettando l’arrivo di papà dal mercato del pesce che dalle parti mie non poteva mancare sulle tavole finemente apparecchiate.
Dagli armadi si traevano i vestiti migliori per indossarli nella Santa Notte quando, chi poteva, si recava ad assistere alla Messa, mentre i più anziani attendevano il ritorno dei familiari per brindare alla Natività davanti al Presepe e intorno all’Albero sontuosamente addobbato. Di quei Natali soltanto la nostalgia vive. Ed il ricordo che fa battere forte il cuore accarezzando le foto sulla consolle di chi non c’è più anima alla mia età la speranza che il miracolo del Natale torni a vivere così com’era un tempo: il Natale dei sorrisi e della preghiera.
Oggi mi sento come Giuseppe Ungaretti nel 1916, quando scriveva in un altro contesto natalizio sanguinoso: “Non ho voglia/di tuffarmi/in un gomitolo di strade//…Lasciatemi così/ come una/cosa/posata/in un/angolo/e dimenticata…”.
Ma resta tuttavia in questa solitudine la voglia di viverlo il Natale, sia pure tra torbide ansie che ci assediano ed elevare un intimo ed impercettibile canto al Dio Bambino, quello più caro che compose e c’insegnò Sant’Alfonso Maria de’ Liguori.