Quest’anno, nel giro di pochi mesi, Federico Rampini, editorialista del “Corriere della Sera”, inviato e corrispondente da Parigi, Bruxelles, San Francisco, Pechino, ha dato alle stampe due libri al contempo illuminanti e densi di significato. Il primo, Suicidio occidentale, fotografa il declino dell’Occidente attraverso una analisi lucida, a tratti spietata, dei mali che ci affliggono e che hanno scombussolato un modello frettolosamente ritenuto esemplare e inattaccabile. Una diagnosi che non lascia spazio ai dubbi. E che si incanala lungo le tormentate vie della perdita di valore e di peso delle antiche certezze su cui poggiava la nostra Civiltà. Una visione Spengleriana, quella di Rampini, che cancella tanti luoghi comuni e fa a pezzi l’idea di un certo modernismo e di una certa “cultura” declinata con spregiudicato autocompiacimento e presunta superiorità. Un libro da leggere tutto d’un fiato, rivelatore com’è dei tanti difetti che ci assillano e che ci condannano ad un futuro denso di incognite.
Il secondo libro, America, non è meno indulgente. Leggendolo, si avverte la ricerca minuziosa, certosina, chirurgica di raccontare l’America per come si è trasformata, per come effettivamente appare agli occhi di chi l’ha vissuta da dentro per quasi un quarto di secolo. L’America con i suoi primati e i suoi difetti. Con i suoi umori e i grandi e piccoli problemi. L’America della quale “tutti pensano qualcosa”, anche chi non c’è mai stato, ma non per questo evita di tranciare giudizi e opinioni molto forti: ammirazione estrema oppure ostilità, disprezzo, paura, orrore.
L’America vera, ripulita da pregiudizi e illusioni, scrive Rampini, “non si lascia descrivere in poche formule stereotipate. “Anche perché gli Stati Uniti non sono mai stati così disuniti, le differenze da un angolo all’altro si sono dilatate negli ultimi anni. E in fondo la loro dimensione continentale giustifica la diversità. Nel territorio che occupano ci sono le stesse differenze climatiche, paesaggistiche, etniche e culturali che in Europa oppongono l’Islanda alla Grecia, il Portogallo alla Germania. Come distanze e fusi orari, gli Usa sono molto più vasti dell’Europa. E al tempo stesso, a differenza dell’Europa hanno una sola lingua (almeno ufficiale, con lo spagnolo che incalza), un solo presidente (anche se la metà degli elettori lo odia o lo disprezza, chiunque egli sia), una sola bandiera (anche se alcuni la tengono sempre alla finestra, altri la bruciano in piazza)”.
Uno dei nostri errori di europei è di considerare l’America una nazione senza storia. Eppure, la sua democrazia è tre volte più vecchia di quella della Repubblica italiana e affonda la radici nella storia di tante altre civiltà: quelle indigene o degli schiavi africani, ma anche delle nazioni europee ed asiatiche che fornirono masse di immigrati. La storia degli Stati Uniti è “abbastanza complicata da trasformarsi in un terreno di battaglia fra opposte ideologie”. Per comprenderla, avverte Rampini, bisogna studiare a fondo la guerra d’indipendenza degli Stati Uniti, la guerra civile, il suo Ottocento che pose le basi di una superpotenza. “Questa storia è più attuale che mai, ha conseguenze ben visibili: per esempio, è impossibile capire la diffusione delle armi tra gli americani, se non si studiano un po’ la Costituzione e le sue origini”.
Viaggiando nell’America delle contraddizioni e delle opposte fazioni, Rampini trova la chiave per offrirci una lettura efficace e istruttiva della stessa politica americana. “Nei cicli politici si sono trasformati i partiti e le loro rappresentanze. Dall’inizio del Novecento e per gran parte del secolo americano, i democratici furono un’alleanza tra bianchi sudisti e operai sindacalizzati del Nord, mentre i repubblicani rappresentavano la borghesia industriale del Nord e i Black. Oggi i ruoli sono stati scambiati, le parti si sono invertire quasi completamente: il Partito democratico ha l’appoggio del capitalismo digitale e di Wall Street, dei laureati nei ceti medio-alti, nonché di una maggioranza di afroamericani e ispanici (anche se perde quota in queste minoranze etniche). I repubblicani sono diventati il partito della classe operaia e dei sudisti”. Insomma, abbiamo assistito ad un ribaltamento nella rappresentanza sociale. A tal proposito Rampini cita Christopher Caldwell, un pensatore conservatore convinto che l’America di oggi vive addirittura in un regime con due Costituzioni, e ciò che spesso descriviamo come polarizzazione, lacerazione, faziosità e inciviltà nel dibattito pubblico è qualcosa di perfino più grave: uno scontro su quale Costituzione dovrà prevalere, quella della libertà individuale o quella dell’equità interraziale imposta dall’alto attraverso un esperimento statalista di ingegnera sociale. “Nell’eterno scontro fra le due Costituzioni – osserva Rampini – nella scelta fra interesse collettivo e libertà individuale, gli Stati Uniti hanno sempre un po’ più di attenzione alla libertà, rispetto al resto del mondo. E questo, che ci piaccia o no, ha fatto parte del loro fascino durante il secolo americano”. Se questo è il panorama politico su cui si staglia la storia antica e recente degli Usa, non meno denso di novità è il quadro sociale, nelle sue articolate differenze tra Stati, città, centri e periferie. New York non è l’America, per lo meno non la rappresenta tutta. La Florida e la California non sono assimilabili alla Grande Mela. Questo vale per geografia, usanze, costumi, ritmi di vita. Scrive Rampini: “L’America odia New York”. Perché è una città “anomala, un caso a parte: Etnicamente più composita, politicamente più a sinistra, troppo cosmopolita per rappresentare l’insieme degli Stati Uniti. L’esodo di newyorckesi verso la Florida – dove si pagano meno tasse, ci sono meno homeless, e governano i repubblicani – ha contribuito a rendere la città ancora più diversa dall’America conservatrice. Perfino quelle aree dove comanda il politically correct della sinistra radicale, come la California, diffidano di New York e si considerano migliori”. Quel che appare inaccettabile è il disordine, il non rispetto delle regole, la sporcizia nella metropolitana, la recrudescenza della violenza delle gang e della criminalità. Al contrario, la Florida sta diventando sempre più il Sunshine State, lo Stato “luce del sole” come ama chiamarsi. Se rallenta la crescita della popolazione nel resto dell’America, in Florida avviene il contrario. Nel decennio dal 2010 al 2020 gli abitanti sono aumentati del 15 per cento, il doppio della media nazionale. Con i suoi ventidue milioni di residenti ha sorpassato la popolazione dello Stato di New York ed è salita al terzo posto dietro California e Texas. Entro il 2024 si prevedono ulteriori sette milioni di residenti. E’ l’effetto della immigrazione. Un exploit senza precedenti. Arrivano soprattutto da altri Stati, attratti dal fatto che la Florida è diventata un polo di attività tecnologiche e perciò capace di attrarre soprattutto forza lavoro giovane. Il Covid ha avuto i suoi effetti nel cambiamento. Il biennio della pandemia, annota Rampini, ha visto emergere la Florida come un bastione dell’”altra America”: libertaria e liberista, allergica alle regole burocratiche imposte dall’alto.
Sintomatico quanto avvenuto nelle scuole pubbliche, dove ha finito con il prevalere l’insegnamento rivolto ai bambini afroamericani e ispanici impregnato di ribellismo contro una società tuttora segnata dalla tara dello schiavismo; mentre sui bambini bianchi si fa gravare il peso del razzismo. “Il mondo della scuola pubblica è diventato un laboratorio per un esperimento estremo, non solo nelle più note roccaforti della sinistra radicale, come la California e New York”, sottolinea Rampini. David Bernstein, fondatore di un’associazione ebraica libertaria e di sinistra, ha raccontato la sua esperienza di padre di due adolescenti nel Maryland: ”Nei licei pubblici frequentati dai miei figli è in corso un controllo antirazzista, i curriculum di studi vengono cambiati per inculcare nei ragazzi le loro identità razziali, etniche, tribali, educarli a combattere i sistemi di oppressione, trasformarli in protagonisti del cambiamento. Il fulcro di quest’operazione è il 1619 Projetc, lanciato da alcuni intellettuali Black di estrema sinistra per riscrivere tutta la storia degli Stati Uniti mettendovi al centro lo schiavismo”. Si tratta di un’operazione di indottrinamento di massa, chiamata Critical Race Theory, che gode l’appoggio dei mass media come il “New York Times” e scatena in tutta l’America ribellioni popolari. Il fenomeno, in Virginia, dove nel 2020 Biden aveva vinto le elezioni, ha portato al successo, un anno dopo, un governatore repubblicano che si era distinto per la sua opposizione all’insegnamento della Critical Race Theory. A ribellarsi, avverte l’autore del saggio, non sono solo i bianchi, oppure i “privilegiati” degli asiatici. I due terzi degli ispanici “non vogliono che i propri figli siano educati in una cultura del vittimismo, della recriminazione, del rancore e delle richiesta di risarcimenti”. L’effetto combinato fra didattica a distanza e indottrinamento ideologico forzoso ha provocato una fuga dalla scuola pubblica verso gli istituti privati, in tutta l’America inclusi i bastioni della sinistra. Molte famiglie hanno preferito trasferirsi in Florida dove il governatore DeSantis ha bloccato i tentativi di indottrinamento di massa nelle scuole pubbliche e ha, perfino, stabilito il diritto per le famiglie di fare causa ai presidi, se i bambini in classe vengono “colpevolizzati” perché portatori di un presunto razzismo generico in quanto bianchi. Il modello-Florida, con l’ascesa politica del governatore DeSantis, si conferma, secondo Rampini, “un luogo dove l’America conservatrice pianifica la propria riscossa”. Significativa la disputa sull’aborto che mostra ancora una volta “una società americana dilaniata da contese esistenziali, valoriali. Uno scontro di civiltà che si estende a questioni morali di fondo”. E’ utile riportare per intero la disamina di Rampini sull’argomento. “Su un giornale di sinistra, il “New York Times”, l’opinionista moderato Ross Douthat mette in dubbio gli argomenti degli abortisti. I “progressisti”, scrive Douthat, si descrivono come il partito che lotta per difendere la democrazia. Ma i giudici costituzionali vogliono restituire l’aborto al metodo democratico, anziché sequestrarlo in mano a una tecnocrazia togata…E benché i progressisti dicano di battersi soprattutto per i diritti delle donne più povere, la realtà è che proprio le più povere e meno istruite sono per il diritto alla vita del feto, mentre gli abortisti sono la maggioranza tra i ricchi e i laureati…Così anche le divisioni sull’aborto accelerano il divario che segna la nostra politica oggi: la destra rappresenta le classi lavoratrici, la provincia profonda e i credenti, la sinistra rappresenta il ceto manageriale laico…L’America progressista scivola verso una miscela debilitante di certezze tecnocratiche, assenza di curiosità verso gli altri, senso di superiorità morale, ignoranza su ciò che pensano gli avversari”. L’aborto contribuisce ad allontanare New York dalla Florida, o la California dal Texas. Questo non significa che l’America repubblica sia una sorta di Medioevo. Gli Stati del Sud che hanno già introdotto restrizioni all’aborto di solito lo consentono per le prime quindici settimane dal concepimento. Un limite meno corto rispetto all’Italia, dove l’interruzione della gravidanza è consentita nei primi novanta giorni, in Francia il limite è di dieci settimane, in Germania, Danimarca e Belgio è dodici settimane. Alla fine il metodo democratico dà questo risultato: c’è un’America dove prevalgono i credenti e l’aborto è molto difficile se non del tutto vietato; chi vorrà o dovrà comunque interrompere la gravidanza cercherà sussidi per viaggiare fino alle cliniche accoglienti di Manhattan o di Los Angeles. E’ un’altra frontiera, invisibile agli occhi del viaggatore europeo, è una barriera etica e legale che dilata le distanze fra le Americhe”. Prendendo spunto dall’esperienza personale, Rampini affonda l’analisi sulla sanità privata, la “sanità più folle del mondo”, con i suoi falsi miti e i suoi pregiudizi, scruta le ragioni e le contraddizioni di un Paese dove tutti girano armati e dove la burocrazia, in molti casi, è un macigno non meno pesante di quella italiana. Per finire con la descrizione, anch’essa acuta ed efficace, della postglobalizzazione. “Dietro le tensioni che attraversano la società americana s’intuisce la fine del globalismo, ideologia dominante per un trentennio, sconquassata da tanti shock: la crisi finanziaria del 2008 (mutui subprime), la rivolta operaia contro le élite che ha fornito voti a Trump, la pandemia, la guerra in Ucraina”. Spunta il tema dell’isolazionismo e prende corpo quel che con un neologismo viene definito friend-shoring. Espressione calcata sul verbo off-shoring, con cui si indicano le delocalizzazioni in Paesi d’oltremare. Secondo vari esponenti dell’amministrazione Biden, per ragioni di sicurezza è il momento di rilocalizzare molte produzioni nei Paesi alleati. I nuovi confini geopolitici della globalizzazione potrebbero dunque restringersi alle liberaldemocrazie più affidabili per Washington, ossia Canada, Unione europea, Svizzera, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Australia e alcuni altri. Ma, si chiede Rampini, è possibile? E’ realistico? Quali ne sarebbero le conseguenze? Friend-shoring significa rivedere gli equilibri economici su cui si regge l’economia americana e tutto il sistema occidentale. Non è facile. Qui le ricette di sinistra e di destra tornano a distanziarsi. Se perseguito seriamente, il friend-shoring potrebbe rappresentare una rivoluzione o una controrivoluzione. Una cosa è certa, conclude Rampini: “Qualunque sia la strada imboccata, dal successo della nostra America dipenderà la tenuta di tutto l’Occidente”.