Nel dibattito politico contemporaneo, uno dei temi più sacri e raramente messi in discussione è quello del finanziamento alla ricerca scientifica. La retorica dominante vede la ricerca come una forza propulsiva per il progresso, lo sviluppo tecnologico e culturale, un ambito che va tutelato e finanziato senza esitazioni. Tuttavia, una riflessione più critica potrebbe portare a conclusioni diverse, soprattutto in un contesto in cui lo Stato è costretto a fare i conti con risorse sempre più limitate e una crescente domanda di efficienza nella gestione della spesa pubblica.
Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, nel difficile compito di trovare nuovi fondi per risanare il bilancio, potrebbe dover prendere in considerazione un’opzione che raramente viene discussa apertamente: la possibilità di tagliare, o almeno di rivedere profondamente, i fondi destinati alla ricerca scientifica. È un’opzione che potrebbe sembrare impopolare, ma se analizzata attentamente risulta non solo legittima, ma forse necessaria.
Innanzitutto, occorre sfatare un mito: non tutta la ricerca scientifica è davvero utile o significativa. Esistono interi settori della ricerca che non producono alcun beneficio pratico e il cui contributo culturale è altamente discutibile. Certo, se si assume una visione olistica della cultura – in cui qualsiasi opera dell’ingegno umano, indipendentemente dalla sua utilità o dal suo impatto, viene considerata di valore – allora ogni tipo di ricerca potrebbe essere giustificato. Ma questa visione porta al qualunquismo, confondendo la cultura con mere speculazioni teoriche o intellettuali.
La verità è che, oggi più che mai, per fare ricerca scientifica seria e di alto livello non basta più l’iniziativa di piccoli gruppi di studiosi che lavorano all’interno delle università locali. Il mondo della ricerca moderna è dominato da grandi centri di eccellenza, che dispongono di risorse finanziarie e tecnologiche enormi, spesso concentrati in poche aree del mondo come la Silicon Valley, il MIT o altri hub di innovazione globale. In questi luoghi, l’accesso a capitali ingenti, infrastrutture avanzate e talenti di livello mondiale rende possibile svolgere un’attività di ricerca che abbia un impatto tangibile. Pensare che piccole università locali, con risorse limitate, possano competere o anche solo contribuire in modo significativo in questo contesto globale è una visione anacronistica.
Fino alla fine degli anni ’60, l’Italia contava pochissime università, quasi tutte concentrate in grandi città e con un numero relativamente ristretto di studenti. Questo sistema, sebbene elitario, garantiva una qualità dell’insegnamento e della ricerca più elevata rispetto al caos attuale. Con la contestazione studentesca e il boom di iscrizioni post-sessantotto, il numero delle università è cresciuto esponenzialmente, portando a una diffusione capillare di atenei in tutto il Paese. Oggi ogni città, anche di dimensioni medio-piccole, ha il proprio polo universitario. Ma è davvero sostenibile, o anche solo ragionevole, pensare che tutte queste università possano svolgere attività di ricerca significative? O siamo di fronte a una dispersione inefficace delle risorse?
Mantenere attive decine e decine di università, tutte con i propri dipartimenti di ricerca, significa diluire i fondi disponibili in mille rivoli, con il rischio che il risultato sia un nulla di fatto. Le università minori, per mancanza di fondi, di risorse tecnologiche e di personale qualificato, difficilmente possono competere con le grandi istituzioni internazionali. Non sarebbe più sensato concentrare gli sforzi finanziari su due o tre poli di eccellenza, selezionando atenei in grado di attirare i migliori talenti e di disporre della tecnologia necessaria per svolgere ricerche di rilevanza mondiale?
Concentrare i fondi su pochi centri ben attrezzati consentirebbe di sviluppare veri e propri laboratori di innovazione, capaci di produrre risultati concreti. Non si tratta di abbandonare la ricerca, ma di essere più selettivi: puntare su qualità e impatto, piuttosto che sulla dispersione di risorse che si traduce, troppo spesso, in ricerche che non vanno oltre il nozionismo.
Un altro problema che affligge il sistema dei finanziamenti alla ricerca, soprattutto a livello europeo, è l’evidente presenza di un’agenda ideologica che orienta la distribuzione dei fondi. È risaputo che settori come gli studi di genere, per fare un esempio, ricevono ingenti risorse, mentre altri ambiti, ben più rilevanti per il futuro del Paese, faticano a trovare finanziamenti. Questo squilibrio è difficile da giustificare: è accettabile che studi su tematiche ideologiche, come le questioni di genere, siano finanziati abbondantemente, mentre settori cruciali per lo sviluppo economico e tecnologico siano trascurati?
Si tratta di una scelta politica che, oltre a sollevare dubbi sull’imparzialità e l’equità nella distribuzione dei fondi pubblici, rischia di allontanare ulteriormente la ricerca dai veri bisogni del Paese. Mentre la transizione ecologica, la digitalizzazione, la biotecnologia e l’intelligenza artificiale sono settori chiave per affrontare le sfide del futuro, risulta paradossale che settori privi di un reale impatto pratico ricevano risorse in modo sproporzionato.
In un contesto economico sempre più critico, il dovere del ministro Giorgetti non è solo quello di trovare fondi, ma di utilizzarli nel modo più efficace possibile. Questo significa fare scelte coraggiose, anche impopolari, e riconoscere che non tutta la ricerca merita di essere finanziata. Non è più sostenibile pensare che ogni settore della ricerca accademica debba ricevere fondi pubblici solo per il fatto di esistere. I cittadini, che versano le loro tasse sia al fisco italiano che alla UE, avrebbero tutto il diritto di indignarsi se sapessero che parte dei loro contributi viene utilizzata per finanziare ricerche che sono poco più che esercizi intellettuali, spesso ideologicamente orientati e privi di un impatto reale.
Il tempo in cui si poteva finanziare indiscriminatamente ogni progetto di ricerca è finito. Occorre una riforma del sistema dei finanziamenti che privilegi la qualità rispetto alla quantità, che punti su pochi centri di eccellenza dotati di risorse adeguate e che elimini i fondi destinati a settori di ricerca che non hanno alcun impatto concreto sulla società o sull’economia.
La sfida per il ministro Giorgetti è ardua, ma non può essere rimandata. Tagliare i fondi alla ricerca non significa mettere a rischio il progresso scientifico del Paese, ma anzi garantire che le risorse vengano utilizzate nel modo più efficace possibile. Concentrare i fondi su pochi centri di eccellenza, escludere le ricerche puramente speculative e orientare la spesa pubblica verso settori che possono davvero fare la differenza: questa è la strada da seguire per garantire un futuro sostenibile e prospero all’Italia.