L’ultimo messaggio me l’aveva inviato qualche giorno fa: “Ciao. S”. L’ho visto in ritardo e non ho risposto. Ora mi porto dentro questo senso di colpa e se lui sapesse mi prenderebbe in giro. Perché Sossio Giametta sapeva scherzare, gli piaceva giocare e, da buon filosofo mondano, sapeva stare al mondo. Ieri nel sonno è scivolato via, all’età di novantaquattro anni – era nato nel 1929 a Frattamaggiore, alle porte di Napoli – nella sua casa di Bruxelles. E’ la morte dei giusti. Ma chi è stato Sossio Giametta per la filosofia italiana e per il pensiero universale?
Il suo nome resterà legato per sempre a quelli di Giorgio Colli e di Mazzino Montinari con i quali collaborò traducendo per la grande edizione delle opere di Friedrich Nietzsche edita da Adelphi la “dinamite” del pensatore dello Zarathustra. Eppure, Giametta non era “solo” un traduttore ma un filosofo a tutto tondo egli stesso. Non dice, forse, proprio Zarathustra: “Si ripaga male un maestro se si resta sempre e solo l’allievo”? Invece, Giametta ha ripagato benissimo Nietzsche perché, come dimostra una delle sue ultime fatiche ossia il Commento a Umano, troppo umano Aforisma per aforisma (Bibliopolis), è riuscito a capirlo più di quanto lo stesso Nietzsche non capì sé stesso scivolando nella follia. Non è stato un “allievo inerte” bensì un discepolo audace che ha visto in Nietzsche il compimento di una rivoluzione filosofica avviata da Bruno e da Spinoza e culminata in una religione laica che non esitava perfino a definire “religione della libertà” richiamandosi direttamente a Benedetto Croce che nominava spesso aggiungendo: “E’ stato il mio primo maestro”. Qui si tocca un punto fondamentale se si vuole intendere Giametta e si vuol capire il senso della sua opera: come Croce iniziò a filosofare per “soffrire meno”, così Giametta iniziò a tradurre Spinoza per respingere una sorta di schizofrenia da cui si sentiva insidiato. Lo scrive lui stesso in una sorta di dialogo platonico intitolato Senecione. Forze e debolezze della filosofia (Liberilibri): “Spinoza mi fornì i ponti per riacchiappare e riunificare quello che mi sfuggiva e si separava, e in tal modo mi restituì alla sanità. Così, cara Sara, nacque per me la filosofia: come terapia”. E così ha sempre poi inteso e praticato la filosofia perché “il lavoro della vita è una continua autoriparazione”. Non solo per il singolo uomo ma anche per i soggetti maggiori: “la società, il popolo, l’umanità. Se la filosofia non è una terapia, per me non è buona filosofia”. Quindi, se per campare Sossio Giametta ha lavorato per tre decenni al Consiglio dei ministri dell’Unione europea, per vivere secondo libertà non ha potuto far altro ciò che han sempre fatto “i suoi maggiori”, da Bruno fino a Croce, lavorare su sé stesso e pensare al di fuori degli schemi, delle scuole e, naturalmente, dell’università. In questo senso Sossio Giametta appartiene di diritto a quella lunga schiera di pensatori italiani extra-accademici per i quali la filosofia non è stata una professione ma una vocazione e, in definitiva, la vita.
Sossio Giametta, che amava dividere la sua vita tra il Nord e il Sud, tra Bruxelles, Milano e il Salento – ha fatto grandi nuotate fino all’età di novant’anni – ha dato un nome preciso al suo pensiero: essenzialismo. L’ha esposto nella Trilogia dell’essenzialismo – composta da Il bue squartato e altri macelli (2012), L’oro prezioso dell’essere (2013), Cortocircuiti (2014) e da altri due testi: Codicillo dell’Essenzialismo: grandi problemi risolti in piccoli spazi (2017) e Caleidoscopio filosofico (2022). Ma quando gli chiesi se il suo “essenzialismo” poteva essere qualificato “naturalismo critico” non esitò a dir di sì. La verità è che ai grandi pensatori le etichette, che vanno bene per le magliette, vanno strette. E il suo pensiero era in continua crescita e, del resto, per un filosofo che come lui che si nutriva di continue traduzioni di Cesare, Spinoza, Goethe, Hegel, Freud, Schopenhauer, Stirner non poteva essere altrimenti. Il suo pensiero, inoltre, nasceva anche sui quotidiani: su queste stesse pagine ha scritto al tempo della direzione di Montanelli e ricordo come fosse ora un suo “pezzo” intitolato “La guerra dei filosofi” in cui guerreggiava con Croce e Gentile. Non a caso ora quell’articolo apre il volume I pazzi di Dio appena ripubblicato da Luni Editrice. Proprio perché Giametta è stato un filosofo autentico e non un professore di filosofia, non si troverà in lui la lettura classica della storia della filosofia che altro non è che una lettura manualistica: per lui la filosofia moderna non inizia con Cartesio bensì con Bruno e dava grande e vitalissima importanza ai filosofi italiani del Rinascimento. Amava dire: “La mia filosofia non è fatta di parole ma di cose”. Ossia il suo riferimento, fedele in questo a Spinoza e al Nietzsche del “senso della terra”, era sempre la natura che alla maniera spinoziana divideva in natura naturans e natura naturata. Oggi che proprio la natura – il Pianeta, come si ripete con ossessione – è stata divinizzata, la lettura dei libri di Giametta si consiglia a chi davvero vuol stringere un patto vitale con la natura perché – diceva – “alla fine pazzi di Dio, pazzi del mondo e pazzi di sé stessi vuol dire la medesima cosa”.
Una delle ultime cose pubblicate da Giametta – mentre non poche altre rimangono inedite – sono i commenti al pensiero di Schopenhauer che si leggono nel testo Controstoria della filosofia edito da La nave di Teseo. Qui scrivendo di Goethe dice: “La grande lezione di misura di Goethe contro l’eccessivo gonfiamento del soggetto, come egli notò, rimase però inascoltata, così come la stessa lezione di Schopenhauer, a suo modo un’altra lezione di misura con lo stesso monito a non esaltare oltre i limiti (fin quasi alla divinazione) il significato e l’attività dell’uomo, ma a tener conto delle necessità e passività impostegli dalla natura, di cui gli uomini sono strumenti. Esse sopravanzano infatti di gran lunga le attività e positività umane: in un certo senso, la natura contro lo spirito”. Questa, possiamo dire, è la lezione di misura di Sossio Giametta che va ascoltata, mentre un po’ tutti oggi credono di essere i padroni di Dio e del mondo, di sé stessi e della natura che immaginano di regolare con un click.