Racconto di formazione? Autobiografia coraggiosa? Omaggio ai maestri e alle guide? Spaccato surreale di una società e di una città uniche al mondo? “E’ stata la mano di Dio”, l’ultimo film di Paolo Sorrentino, è tutto questo, e altro ancora. Cominciamo dal coraggio. Non dev’essere stato facile affrontare e raccontare un episodio tragico della propria vita, così come è insidioso voler ritrarre una realtà come quella partenopea senza scivolare nel già detto e visto, nell’oleografia della pizza e del mandolino (ma anche della malavita) e, in definitiva, nella retorica del luogo comune. Il tutto, senza tradire la cifra stilistica originale che fin dal principio ha caratterizzato questo regista figlio di Napoli.
Qui la “grande bellezza” della città sul Golfo viene mostrata a sprazzi e il mare, com’è ovvio, la fa da protagonista; ma se lo scenario è perfino ineludibile e prevedibile, sono i suoi attori a imporre le loro maschere, a partire dal sempre straordinario Toni Servillo, in bilico tra misura e dismisura, perché la realtà di certe esistenze, di certi caratteri, di certi luoghi, a Napoli è sempre in precario equilibrio sul crinale della surrealtà, tra sogno e concretezza, tra fatalismo e ribellione, tra devozione e superstizione, in una “paganitas” possibile soltanto sotto quel cielo.
E passiamole in rassegna queste immagini regalateci dal nostro regista più visionario, partendo proprio dalle figure dei suoi genitori, due “piccoli borghesi” inseriti in una più ampia comunità familiare dove convivono personaggi intrattabili come la matrona che divora, in pelliccia, una mozzarella grondante e ogni tanto inveisce contro parenti e affini o immalinconiti dalle delusioni di un’irredimibile mediocrità e dalla gelosia per una moglie bella e ingovernabile (rispettivamente Massimiliano Gallo e Luisa Ranieri, zii del giovane protagonista); o ancora zie, cognate, sorelle, nonne obese, nell’alveo del grottesco felliniano. I genitori, dicevamo: sotto l’apparenza di un collaudato affiatamento, corroborato dal sogno ormai realizzato di una casetta in montagna, si cela un segreto non da poco: lui intrattiene da anni una relazione con una collega d’ufficio, dalla quale, si scoprirà, ha avuto perfino un figlio; ma dopo le periodiche sfuriate, la mamma tornerà alla sua vita “normale” e agli scherzi crudeli per cui è temuta in famiglia.
In questo panorama, Fabietto – e il nome posticcio non basta a coprire la vicenda autobiografica del protagonista-regista – appare inizialmente agitato da due passioni: quella del sogno – poi realizzato – di vedere Maradona nella squadra del cuore, e quella che resterà nel limbo dei desideri inconfessabili per la folle sensualità della zia Patrizia, le cui nudità, in bilico fra scandalo e innocenza, vengono candidamente esibite a tutta la famiglia, in gita nel mare di Massalubrense sul nuovo, lussuoso gozzo di un altro ambiguo zio.
Sull’onda di una sensibilità che ricorda quella di Troisi, a proposito dell’intreccio fra ortodossia religiosa e visione pagana dell’esistenza, fin dall’inizio, con l’irruzione di un sedicente San Gennaro a bordo di un’Hispano-Suiza e con gli occhi azzurri di Enzo De Caro ci ritroviamo, con la bella Patrizia-Luisa Ranieri, in un mondo fantastico che ha le sembianze di un antico palazzo dagli interni sfolgoranti di lampadari posati sul pavimento e abitato dal “munaciello” di tante favole partenopee.
E a proposito di intrecci e intersezioni, ve ne sono altri significativi, come quello che sfocia nell’arresto dello zio del gozzo, evidentemente incapace di distinguere l’espediente dalla illegalità, come forse, laggiù, capita più spesso di quanto non si creda; o come l’incontro di Fabietto con soggetti malavitosi, ma dotati di un’insospettabile carica di saggezza: fra i suoi “maestri di vita”, dopo la morte dei genitori, un ruolo non secondario lo reciterà un giovane contrabbandiere, che gli indicherà le strade della felicità, in una scorribanda notturna fra Napoli, Pompei e una Capri deserta, dove l’apparizione del ricco emiro in barracano, con la sua odalisca irridente, darà un ulteriore tocco di surrealtà all’insieme. In questo percorso, il fato che accomuna i popoli mediterranei, stavolta sotto forma della “mano di Dio” si manifesterà dapprima nell’arrivo in città del nuovo idolo – calcistico, ma non solo – tra folle festanti, poi nel famigerato gol di mano che contrassegnò l’inizio della vendetta calcistica argentina sull’odiosa Inghilterra, vincitrice della guerra delle Malvinas; e poi, soprattutto, nel salvare la vita a Fabietto, che per ammirare dagli spalti dello stadio le evoluzioni del divo Diego, non seguì i suoi nella casetta di Roccaraso, destinata ad ospitare il loro appuntamento con la morte per avvelenamento da ossido di carbonio.
Ma altri ancora sono i “maestri” del Sorrentino adolescente: ed ecco l’anziana baronessa del piano di sopra, che inopinatamente gli schiuderà le vie del sesso (lo stesso padre, del resto, aveva esortato Fabietto a non sottilizzare sulla scelta della sua “prima volta”); e, soprattutto, ecco un altro regista, Antonio Capuano, che con la sua sfacciata irruenza gli snocciolerà una serie di precetti, buoni per la professione e per la vita. Il più importante di questi – “resta a Napoli e racconta la tua città” – tuttavia Sorrentino non lo seguirà: il film si conclude infatti col giovane, ormai sulla via della precoce maturità regalatagli dalla tragedia dei genitori, in treno verso la capitale e verso il suo futuro (“Sulamente ‘e strunze vanno a Roma”, gli aveva detto l’iracondo Capuano, in aperto contrasto con Eduardo, che invece invitava i giovani ad abbandonare la loro città, al grido disperato “Fujtevenne!”). Allo spettatore, sulle note di “Napul’è”, unica – gradevole – scivolata nel prevedibile, resta il compito di decifrare gli svariati messaggi disseminati nella pellicola che, con le sue caleidoscopiche immagini, celebra, una volta di più, il trionfo del cinema.