Nella cultura italiana la parola “critica” rimanda in modo naturale alle reminiscenze liceali, alla filosofia di Kant con le sue tre Critiche – della ragione, della pratica, del giudizio – ed a Francesco De Sanctis e alla “critica letteraria”. Mentre, però, nel primo caso si ha un referente rispetto per il criticismo kantiano – un po’ come accade con tutte le espressioni che non s’intendono appieno – nel secondo caso si prende la cosa con facilità o, addirittura, con faciloneria – come accade con tutte quelle forme culturali ritenute secondarie o minori e che si crede d’aver non solo capito ma anche digerito. Non è, forse, questo, proprio questo, il senso di superiorità nutrito dalla “critica scientifica” dello strutturalismo, della semiotica, della linguistica, ma anche dalla stilistica e dal filologismo, nei riguardi della “critica tradizionale” di origine desanctisiana? Cosa gli scienziati del testo hanno sempre rifiutato della cultura della critica militante se non, da una parte, il gusto (personale) – umano, troppo umano – e dall’altra, il giudizio (soggettivo)? La struttura, il testo, il significante servivano a superare il soggetto, il gusto, il giudizio. La teoria della letteratura avrebbe dovuto spazzare via la critica della letteratura. Ma quando chiesero allo strutturalista – “Scusi, lei da dove parla?” – lui, lo scienziato strutturalista, non rispose e tutta la sua filosofia, perché era pur sempre una cara, vecchia filosofia, venne giù con la sua bella pretesa di teoria scientifica oltreumana o, più semplicemente, arbitraria. Così, una volta venuta meno la “critica scientifica” – la Teoria, la Scrittura, il Segno – che dominò per circa un ventennio, dai Sessanta agli Ottanta, cosa è riemerso se non la cara, vecchia “critica tradizionale”, la critica letteraria di Francesco De Sanctis?
Tuttavia, nella storia e nella storia del pensiero o, più in generale, della cultura e della società non vi sono mai “ritorni a…” – “ritorno a Kant”, “ritorno a Hegel”, “ritorno a Croce” – e anche nel caso della critica letteraria non c’è stato un ritorno alla critica di De Sanctis, di Croce, e nemmeno di Debenedetti e, piuttosto, si è intonato periodicamente il canto della veglia funebre per la “cara estinta”. Perché? Perché la critica è faticosa.
Chi ha mostrato che la critica è figlia del mito di Sisifo, dunque, è terribilmente faticosa, ma giammai inutile e, anzi, è un’esigenza della vita umana, tanto singola quanto associata, è Massimo Onofri, critico militante che potrei anche definire crociano, con un suo innamoramento per Giuseppe Antonio Borgese, se le definizioni non lasciassero il tempo che trovano. Nel suo La ragione in contumacia – una sorta di apologia della critica – che risale al 2007 rileva che “la teoria della letteratura del Novecento, in massima parte (dai formalisti russi al circolo di Praga, dallo strutturalismo francese all’ermeneutica post-heideggeriana), è stata una variante autoritaria del platonismo: d’un Platone coniugato con Saussure, Freud e Marx, per arrivare alla convinzione che il lettore ingenuo, quello non ancora addestrato ai misteri del metodo e della scienza della letteratura viva la sua vita come ‘sottosopra’, dentro una realtà rovesciata che resta sempre quella, monolitica e inossidabile, del capitalismo conclamato, dell’alienazione e del feticismo delle merci”. E’ la storia di sempre: i comuni mortali non sanno ciò che i re-sapienti – gli Intellettuali – sanno molto bene perché hanno scoperto la “struttura originaria”, cara a Emanuele Severino o la verità della necessità con la quale possono far capire, per il nostro bene, a noi comuni mortali ciò che non abbiamo capito liberandoci dalle ombre, dalle passioni, dagli errori, dalle catene, dal senso comune. E, invece, la critica ci mostra che proprio il platonismo non funziona senza le ombre, senza le passioni, senza il cavallo nero dagli occhi iniettati di sangue, senza gli errori e, insomma, senza la mitica Caverna che è l’immagine della condizione umana. Ma la condizione umana è terribilmente faticosa, mentre sarebbe così comoda la Teoria Definitiva.
La critica, da Kant a De Sanctis a Croce e ritornando indietro a Vico e riandando avanti a Isaiah Berlin, mostra che proprio il gusto della vita e dell’opera bella, ciò che la teoria della letteratura avrebbe voluto eliminare per dar corpo solo alla Lettera, è indispensabile per dare senso alla nostra mortale condizione in cui proprio il giudizio critico, che unisce e distingue soggetto e predicato, è il modo per relazionare essere e divenire che sono la relazione stessa e senza questa relazione, come sapeva Hegel e forse meglio di lui Croce, non sono. Il platonismo, che attraversa tutta la storia del pensiero occidentale, non è il dualismo: l’eidos, infatti, non è il caciocavallo penzolante di Labriola ma lo stesso divenire sensibile, pensato un po’ più stabile e sensato, in cui nasciamo, viviamo e moriamo.
La critica – in particolare la critica letteraria o d’arte che risponde alla domanda “Perché quest’opera è bella?” – ci mostra la dimensione estetica ed economica della nostra umanissima condizione. Quelle che Croce chiama “le due scienza mondane” sono non solo il nostro ancoraggio al mondo ma anche la stessa condizione di possibilità di giudicarlo, volerlo e crearlo. La filosofia dell’arte è una modalità della vita estetica perché più che poeta nascitur è vero che homo nascitur poeta. Poetica è l’umanità. Se così non fosse non avremmo possibilità alcuna non solo di gustare la poesia e d’intendere i poeti ma neanche di parlare e comunicare tra noi, non-poeti. Il mondo ci è dato esteticamente e lo pensiamo logicamente ma sempre sulla scorta dell’intuizione che è davvero l’aurora dello spirito, la sua alba chiara (ci va bene anche Vasco, ma sì, dai). Ecco perché ogni critica che si rispetti non può fare altro che avere un’estetica e una filosofia o teoria. Con la precisazione, come giustamente avvertiva Croce, che estetica e critica sono la stessa cosa: la differenza se c’è è solo didascalica. Perché anche il momento dello schiarimento concettuale implica l’intuizione, il fenomeno.
L’estetica proprio in quanto tale sarà la stessa filosofia e, insomma, l’organo della conoscenza è sempre il medesimo ossia il giudizio storico che sarà esercitato al meglio sulla base dell’esperienza del suo contenuto relazionale: arte, economia, calcolo, azione, vitalità. Il giudizio, del resto, può essere esercitato solo sulla scorta della distinzione e, per citare ancora Platone, su una concezione dell’essere in cui c’è il primato del diverso o della differenza: altrimenti si cade o nella tautologia dell’Uno o nell’insensatezza dei Molti. E, allora, certo che il critico non è artifex additus artifici ma, come dice il Breviario di estetica, philosophus additus artifici: “La sua opera non si attua se non quando l’immagine ricevuta si serbi e si oltrepassi insieme; essa appartiene al pensiero, che abbiamo visto superare e rischiarare di nuova luce la fantasia, e rendere percezione l’intuizione, e qualificare la realtà, e perciò distinguere la realtà dall’irrealtà”.
Nella critica dell’opera d’arte è proprio la facoltà distinguente il sale della risposta alla domanda sull’eventuale bellezza. Perché in quella distinzione l’opera va intesa nella sua genesi – possiamo anche dire che va gustata – e va distinta da ciò che è altro rispetto a sé stessa. L’alterità, che è dell’altro e di me stesso come altro e, quindi, della vita, è il lavoro della critica ma anche della semplice lettura o dello sguardo: sempre che si sia disposti a farsi dire qualcosa dall’opera e dalla vita in genere. L’opera d’arte, come coglieva bene Heidegger al di là delle sue involuzioni linguistiche nel saggio su L’origine dell’opera d’arte, mette il mondo in opera o apre e istituisce mondi e la critica dovrebbe avere la sensibilità di mostrarli avendoli intuiti e pensati. Ma a sua volta la critica istituisce la libertà.
Questa è la sua qualità più preziosa e intima, questo è il senso del suo essere o del suo esercizio. Non solo nel senso che se non c’è possibilità di critica non c’è libertà, se non c’è dissenso, se non si può dire no o non ci si può opporre è evidente a tutti, o così dovrebbe essere, che non c’è libertà. Ma anche e soprattutto nel senso che l’esercizio della critica – il giudizio – implica una rivoluzione o riforma cognitiva in cui la conoscenza, anche la conoscenza scientifica, è sempre e solo conoscenza storica che per sua natura non mette capo al titanismo del dominio assoluto dell’esistente ma molto più semplicemente al governo limitato della vita libera. Il potere va giustificato sul piano del sapere o della conoscenza, ma siccome con il concetto della verità storica o della verità come storia non si dà un sapere assoluto ne viene che il potere assoluto è un doppio abuso: una volta nei riguardi delle vite libere che devono rispondere al governo di sé e una volta nei confronti dello stesso potere che, non più limitato nella sua forma, perde efficacia. La critica è, in fondo, il caposaldo della nostra vita civile e quelle che chiamiamo Carte costituzionali sono la pietra angolare dei liberi istituti che prima di nascere dal diritto sono partorite dalla facoltà di giudizio, dalla cultura della libertà. Insomma, dalla critica.