L’obiettivo mondiale climatico, emissioni zero programmato per il 2050, che include l’accordo di Parigi: agire per ridurre e contenere l’aumento della temperatura garantendo di non superare il limite, di un 1.5 gradi medi, rispetto ai livelli preindustriali. Ha trovato l’intesa globale per avviare una “transazione dai combustibili fossili”, nella 28’ conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, con la partecipazione di 198 Paesi, proprio a Dubai, dove rispetto alle precedenti edizioni, per la prima volta si sottoscrive l’effettivo superamento, delle “fonti fossili”, tenendo conto che parte del testo è stato elaborato in Europa, cercando di rispondere alle richieste poste in campo dagli ambientalisti. Resta comunque un dubbio cruciale poiché la locuzione lessicale inglese adottata nel testo, “transition away” offre varie declinazioni e interpretazioni.
Anche se entro il 2050, la rappresentanza mondiale, come da calendario per la lunga battaglia per il clima, deve aver completamente evaso ogni esperibile azione per giungere all’indipendenza dalla energia fossile, e da una analisi economica e politica, ciò sembra essere relativo, perché si andrà incontro ad una sorta di “eliminazione graduale”, che sarà ovviamente garantita dal “Stocktake”, ovvero un “bilancio” di impegni, necessari per approntare la riduzione di emissione di gas serra. Un vero e proprio, bilancio mondiale, che non prevede obiezioni nazionali e globali.
Ma il compromesso così raggiunto, dalle parti in gioco, prevede di fatto una reale decarbonizzazione industriale, senza circostanziare eventuali imprevisti o profitti di parte, con la rivalutazione di una seconda generazione del nucleare, che già in America sta trovando un nuovo risorgimento sia energetico che di approfondimento economico, politico e di ricerca. Questa rivoluzione globale, che sembra avere una consapevolezza del cambiamento climatico, cozza già con una manipolazione atlantista di prima maniera, senza tener conto che alcune nazioni viaggiano su promesse energetiche alternative come i biocarburanti, ad esclusione dei fossili, ed altre che rifuggono, per esempio l’Italia, che con referendum abrogativo ha rinunciato al nucleare, ma che utilizza l’energia nucleare acquistandola dalla Francia, da decenni in una paradossale curva di profitti a costi elevati. Ne consegue che la transition away graduale, per il reale abbandono da gas, petrolio e carbone, resta comunque un fragile accordo, sebbene sottoscritto dagli stessi Paesi arabi, l’obiettivo, è comunque, lungimirante, ma spinge, verso una falsa accelerazione di intenti, che sembra non collimare con una crisi climatica, che incalza ad una velocità insostenibile.
Il Global Stocktake, pur garantendo la sicurezza energetica e la sua graduale transizione per un’eliminazione definitiva delle fonti fossili, mette in campo scarse risorse finanziarie, per aiutare i paesi più deboli ad accelerare la transizione, almeno, per adeguarli al raggiungimento del 60% di rinnovabili e con un’efficienza energetica del 20 o 30 %, per ridurre entro il 2030 le emissioni del 70%, e raggiungere nel 2040 il 100% delle rinnovabili, quindi siamo ancora nel mare delle utopie, per raggiungere di fatto una sorta di reset climatico nel 2050.
Il favore, degli Emirati Arabi, ha il sapore dell’accordo impossibile, pertanto, non se ne riconosce la credibilità, sebbene è premiato con il consenso globale e americano, infatti gli 85 miliardi di dollari che sono stati raccolti per incentivare il global Stocktake, e derimere un’azione globale per il clima, sembra un’oasi di pace in un mondo che la pace non conosce, dove le guerre si comprano a fior di dollari, per disinstallare l’inflazione amministrata americana, e nella fattispecie, un incentivo così esoso ma non sufficiente ha lo stesso identico sapore di una manovra con scopi lontani dall’obiettivo.
Tuttavia, il tutto ha istaurato a livello globale un clima di ottimismo, tutti i negoziatori hanno cercato un possibile accordo ed un sostenibile obiettivo, al fine di un avvicendamento, energetico efficiente ed efficace, finalizzato a triplicare la capacità energetica rinnovabile e a raddoppiare il tasso di miglioramento dell’efficienza energetica entro il 2030. I soli scontenti e delusi sono rimasti gli ambientalisti, che auspicano una eliminazione totale delle fonti fossili, nell’immediato, con una transizione contrattuale più impositiva, ritengono che l’intesa sebbene globale è solo un riconoscimento collettivo, che flebilmente cerca di muoversi verso un futuro più pulito non totalmente ed energeticamente rinnovato, che non impedisca il disastro ecologico del pianeta annunciato dagli scienziati.
Il surriscaldamento del pianeta è il fenomeno più temuto, sai per la sostenibilità e la qualità della vita, sia per le colture agroalimentari non più in grado di riclassificarsi e adeguarsi. Vero è, infatti, che l’accordo di Dubai sta assumendo un valore storico senza precedenti, un cartello globale, che nessuna Nazione mondiale può sottovalutare, la stessa Cina, la Nazione con maggiori emissioni, sembra essere disposta a fare un sostanziale passo indietro, che le offrirà al pari dell’America un’apertura senza minacce all’ingresso, per affrontare uno sviluppo di mercato rinnovato, con fonti rinnovabili, per le sue multinazionali.
Certamente il contesto geopolitico globale in cui si è svolto l’accordo climatico non era scontato, e il suo raggiungimento è già un grosso traguardo, sebbene occasionalmente sostenibile. Infatti, la geo-ingegneria professa soluzioni, scientificamente non comprovate o comunque adeguate alla natura come artificiali piogge di acido di Zolfo, incardinate nelle particelle della zono sfera, simili alle ceneri delle eruzioni vulcaniche che andrebbero a ridimensionare il riscaldamento globale. Ma siamo ancora ai margini dell’improbabile e non risolto.
L’Europa, si inserisce in questo quadro, con una posizione risoluta, non si è dato adito a compromessi ma ad un obiettivo, che anche l’Italia ha sottoscritto con convinzione, salvo riformulare con tenacia poi tutta la politica nazionale al fine di raggiungere il traguardo ambito, la gradualità comunque anche se flessibile, consentirà un’altra cessione di sovranità all’interno dell’Europa, per gli Stati membri, inducendoli ad una Unione ecologica europea, base necessaria per un passo avanti verso un Unione sovrannazionale e ordinamentale di Stato Nazione.
Il Cop 28’, traccia una sorta di punto di partenza economico-scientifico, una sorta di assunzione di causa-effetto, tra rimozione dei combustibili fossili e riscaldamento globale, per ponderare la neutralità climatica, sebbene molti ancora negano il cambiamento climatico e lo attribuiscono ad un cambiamento fisiologico cosmico del pianeta, ma vero è che mitigare l’inquinamento da carbon fossile, e triplicare le rinnovabili, di certo non toglierà ma aggiungerà sostenibilità alla vita presente. Il peso politico di questo accordo è innegabile, e sarà foriero di politiche di transizione in ogni Nazione di riferimento all’accordo, come per esempio l’Italia, che dovrà dotarsi procedendo con passi fondamentali e graduali, con una stretta connessione con gli altri patners, di una legge operativa sul clima, delineando obiettivi per una governance, efficace che coinvolga soggetti economici e sociali, in una definizione finanziaria delle politiche climatiche, tenendo conto della diversa natura Italiana sia al nord che al sud della Nazione a livelli regionali.
Inoltre, l’Italia, in questa nuova dimensione, dovrà di una reale modalità di coinvolgimento attivo e consapevole delle amministrazioni territoriali, volte al controllo delle zone con gravi disastri idrogeologici, porre una nuova fiscalità nel merito, finalizzata anche a scopi preventivi oltre che punitivi per errori o mancanze, di rispetto dell’ambiente.
Ponderare uno sviluppo intelligente, per una urbanizzazione con efficientamento energetico rinnovabile, e conseguire una conversione del sistema industriale favorendo l’applicazione delle rinnovabili, un progetto ambizioso e complesso, che pone l’accento su una politica Europea fortemente integrata sul territorio di riferimento. In altre parole, si deve sviluppare una comunità di riferimento sviluppata tecnologicamente, nel rispetto delle diversità del territorio e delle sue presenze artigianali o industriali, e sociali, in una comunità civile fortemente differenziata.
Questa sfida nazionale, interna alla crescita e alla stabilità delle politiche di bilancio climatiche, sarà comunque traslata anche a livello di clima e intervento umanitario, prevalentemente per i Paesi insulari, minacciati non solo dall’inasprimento del clima, ma anche dall’innalzamento del livello dei mari, maggiormente esposti e vulnerabili, che avranno bisogno di notevoli interventi e risorse finanziarie per fronteggiare le emergenze e ridurne gli effetti. Quindi l’Italia parimenti agli altri Stati dovrà sostenere il Fondo per le perdite e i danni, per sostenere le comunità colpite, fondo ascrivibile alla Banca Mondiale, inoltre rilanciare il Climate Action Account per rispondere con solerzia al fenomeno.
In Europa la Nazione più virtuosa, con performance notevoli per fronteggiare il cambiamento climatico è la Danimarca, con una forte riduzione delle emissioni climatiche e sviluppo delle rinnovabili. Ma la soluzione definitiva al clima prevede un percorso tortuoso e lungo, ancora la visione politica è da tracciare e si rischia di guardare al clima come un pachiderma ingombrante, come un dramma Ionesco, che non trova soluzioni ai problemi e che si ingigantiscono con il passare del tempo.
Il tempo è una variabile ormai impazzita, che non porge il suo favore alla politica, ed il clima suole sembrare un problema legato a complessi fattori geologici, biologici, e fisici che mal coincidono con le istanze geopolitiche, che si accendono e si spengono ad ogni crisi bellica, che si camuffa in una sorta di identità etica e religiosa, ma che ha il sapore di conflitti a scopi geoenergetici, come la crisi Ucraina, e Gaza, e il pachiderma del clima mostra sempre più reazioni catastrofiche che pongono l’umanità a rischio estinzione.
Il sillogismo fideistico che la politica pone verso la scienza sembra naufragare, e l’interesse delle governance finanziare, prendere il dominio dei mercati, logorando il sistema economico monetario mondiale a svantaggio di soluzioni climatiche non ancora certe ed attuate. La comunicazione si frappone, ma la vera soluzione resta ed è politica, bisogna tendere ad un ambientalismo di recupero dei valori ereditati dal passato, e nel decidere la visione del nostro destino e del destino del pianeta dobbiamo almeno in Europa, fronteggiare le riforme in maniera condivisa e pertinente al rispetto delle nostre diversità naturali nazionali.