Trent’anni esatti sono trascorsi dalle elezioni politiche che inaugurarono ufficialmente il Ventennio berlusconiano. Se ci tratteniamo dall’etichettare come “centrodestra” lo schieramento uscito trionfatore, contro ogni pronostico, da quella consultazione è solo perché lo schieramento allestito da Forza Italia, Lega e Msi (non ancora Alleanza Nazionale) rievocava più una chiassosa armata Brancaleone che un disciplinatissimo reggimento prussiano. Basti pensare che le prime due correvano in tandem al Nord, dov’erano però apertamente contrastate dai candidati della destra. Una clamorosa contraddizione che segnalava molto chiaramente come al tradizionale bipolarismo politico destra-sinistra se ne andasse ormai affiancando uno territoriale, inedito fin a quel momento: quello Nord-Sud. E che quest’ultimo fosse destinato a pesare quanto se non più del primo è certezza che si ricava dalla effimera parabola del primo governo Berlusconi: appena sei mesi di vita prima di finire strozzato dal ribaltone di Bossi. Da allora, tuttavia, ne è scorsa di acqua sotto i ponti di quella coalizione fino ad arrivare all’attuale destra-centro, dove il sovvertimento della tradizionale etichettatura sta a sottolineare il travaso di consensi in favore di Fratelli d’Italia, il partito che esibisce nel proprio logo la Fiamma tricolore che fu prima del Msi e poi di An.
Ma se oggi non è la coesione politica a far difetto nella coalizione, è l’aspetto territoriale ad evidenziare qualche preoccupante insufficienza. Fino a far apparire il centrodestra come un’alleanza a prevalente trazione nordista. In tal senso, almeno, depone l’assenza di un apprezzabile vaglio critico del disegno di legge che introduce l’autonomia differenziata, giunto ormai sul rettilineo che conduce al traguardo. Scartata la Lega, che ne è lo storico battistrada, né FdI né Forza Italia sono infatti apparsi preoccupati di sviscerare in profondità un provvedimento che non promette di avere in serbo buoni doni. Non solo per il Mezzogiorno ma per il futuro stesso dello Stato nazionale, che si vedrà spogliato di competenze su settori strategici e decisivi per lo sviluppo come energia, grandi infrastrutture, comunicazioni, commercio estero, relazioni internazionali, giudici di pace e via elencando. Al suo posto ci penserebbero le Regioni in versione Staterelli pre-unitari. Un salto all’indietro che ricaccerebbe l’Italia nella sua condizione di mera espressione geografica con buona pace di oltre 160 anni di storia unitaria. Una vera beffa per Giorgia Meloni e Antonio Tajani, che l’Italia pure onorano sin nella denominazione dei rispettivi partiti. Ma è colpa anche loro, visto che entrambi sembrano aver rinunciato alla prospettiva di dare corpo e voce a quel Mezzogiorno nazionale, che è l’esatto contrario della ridotta sudista poiché indica nel Meridione l’unica zona dove l’Italia può crescere.
Certo, FdI ha bardato il progetto caro a Salvini con tutta una serie di paramenti normativi e organizzativi, a cominciare dai cosiddetti Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) senza la cui definizione non sarà possibile il trasferimento di competenze alle Regioni, ma, sotto il profilo logico, è un po’ come sostenere che l’aspetto migliore della riforma in oggetto consiste nel fatto che difficilmente vedrà la luce. Non proprio massimo dell’apprezzamento. E non proprio il miglior viatico per chi di quella riforma dovrà subire gli effetti. Tanto più che secondo la Fondazione Mezzogiorno e Confindustria Napoli ben 184 importantissime funzioni oggi dello Stato sarebbero immediatamente devolvibili ai governatori. Tuttavia, a parziale esimente di FdI bisogna aggiungere che il ruolo di primo partito impone di federare piuttosto che contrastare, di mediare piuttosto che impuntarsi e quindi di farsi carico anche delle esigenze degli alleati. Ma quel che vale per FdI non vale per Forza Italia, ben più libera di calarsi nel ruolo di interprete di un Mezzogiorno nazionale. Le spetterebbe addirittura di diritto considerando la presenza di ben tre suoi governatori – Sicilia, Calabra e Basilicata – e l’esistenza di un ancor ragguardevole bacino elettorale. In concreto significa mostrare più senso critico rispetto all’autonomia differenziata e intestarsi una tenace e argomentata tutela delle ragioni dello Stato unitario con particolare riferimento ai già citati settori strategici e, in nome di questi, imporre un pit-stop in grado di raffreddare la frenesia elettoralistica dell’alleato leghista sul tema. Nessuno se ne scandalizzerebbe. Una coalizione, si sa, si fa tra partiti diversi. Mentre il fatto di esibire differenti sensibilità su un provvedimento a dir poco controverso e che la sinistra non mancherà di sfruttare e cavalcare nonostante le sue macroscopiche responsabilità in materia, è un arricchimento dell’offerta programmatica e non un depotenziamento della compattezza politica. Nessuno, del resto, può pretendere che una soluzione invocata a gran voce da tre regioni del Nord, tra cui una, l’Emilia Romagna, a guida Pd – a conferma che il fattore territoriale fa premio su quello politico – debba essere subita con rassegnazione da quelle del Centro e del Sud.
A maggior ragione oggi che i sondaggi mostrano una Lega sempre più rinculante verso i suoi territori d’origine in perfetta simmetria con le (ormai riposte) ambizioni di leadership nazionale di Matteo Salvini. È solo questione di tempo, ma non è azzardato immaginare che più prima che poi il Carroccio tornerà a pensare e ad agire da sindacato del Nord. Del resto, solo ciò che ha senso ha anche consenso. Una Lega che pretendeva di espandersi territorialmente limitandosi a cancellare il riferimento al Nord dal proprio simbolo lasciando però intatte le proprie ambizioni autonomistiche, al Sud di senso ne aveva davvero poco e, presumibilmente, di consenso ora ancora meno. Vale, a parti invertite, anche per Forza Italia, che proprio per questo non dovrebbe sciupare l’occasione offerta dall’autonomia differenziata per incarnare le ragioni di un Mezzogiorno nazionale in asse con il pensiero delle forze vive dell’impresa e del lavoro e di gran parte delle energie intellettuali del Paese. Dovesse decidere di farlo, getterebbe le premesse per un rilancio duraturo e convincente del proprio ruolo nel centrodestra ed occuperebbe lo spazio, tutt’altro che residuale, di un movimento capace di parlare all’Italia con la forza di un profondo radicamento territoriale. Piacerebbe, in fondo, anche a Berlusconi, che presentava se stesso come un «napoletano nato a Milano». Il Cavaliere amava sottolineare così il connubio tra la propria “meneghinità” e la propria vulcanica prorompenza. Che la sua fosse una semplice boutade o un’impegnativa profezia spetta solo a Tajani stabilirlo.