Sono sei anni, da quando Emmanuel Macron si è insediato all’Eliseo, che la Francia è diventata il laboratorio di proteste, intolleranze varie, violenze diversamente motivate. L’assassinio del giovanissimo Nahel, diciassettenne diventato simbolo suo malgrado delle contraddizioni di una società frastornata, ha fatto esplodere ciò che covava sotto la cenere da molto tempo: il disordine civile, l’incapacità dello Stato a tenere in piedi una nazione senza particolari scossoni, la prova della disintegrazione di uno sciagurato progetto di assimilazione etnico-culturale. Le banlieues sono diventate recinti dai quali fuoriescono disadattati che si legano agli insofferenti autoctoni e ai casseur di diverso colore tra i quali primeggiano bande di black bloc il cui passatempo di fine settimana è quello di mettere a soqquadro Parigi ed altre importanti città.
Agricoltori, pensionati, ferrovieri, studenti (tutto coloro che in questi anni a diverso titolo hanno fatto sentire, anche violentemente, la loro voce) e tanti altri scontenti non cercano sponde politiche per legittimare i loro rispettivi disagi, ma si appellano alla gente comune perché apra gli occhi sulla inadeguatezza del potere di garantire un minimo di convivenza civile alla Francia. Ormai tutti, dentro e fuori dai confini dell’Esagono, si sono resi conto che con la politica degli annunci, ispirata ad una grandeur posticcia, il Paese muore poco per volta.
Nahel, innocente vittima dell’ inefficienza dello Stato e di un poliziotto dal grilletto facile, ha messo in mostra ciò che da tempo tutti avevano capito: un presidente eletto da una minoranza non può essere in sintonia con la nazione e prima poi questa gli si rivolta contro. La si può interpretare come si vuole la crisi francese, ma è innegabile che i fallimenti ricordati sono il frutto di una mancanza di visione dello Stato-comunità su cui per decenni, dai tempi di De Gaulle fino dal Hollande si è retto un Paese dalle immense risorse che guidato dal “presidente dei ricchi”, come venne chiamato al suo esordio, è precipitato in un caos che al momento nessuno sembra riesca a porci riparo, tanto meno un governo formato da ministri i quali hanno dimostrato la loro inadeguatezza anche per le contraddittorie direttive presidenziali.
Parigi è un quadro desolante di micro (ma non tanto) aggregati di residenti che si autogovernano: hanno i loro negozi, le loro abitudini, i loro centri di accoglienza, di culto e soprattutto nelle periferie si sono organizzati come società autonome che dallo Stato pretendono tutto il possibile, ma che considerano tuttavia un “nemico”. Il poliziotto, a parte chi si esercita nel tiro a segno contro passanti sospetti che non rispettano il richiamo a fermarsi per esempio, è l’emblema secondo i “rivoluzionari” extracomunitari ed arrabbiati vari dello Stato che immaginano vorrebbe tenerli in cattività. Non hanno tutti i torti perché il potere politico non è stato in grado – e come avrebbe potuto ? – di integrarli con il resto della comunità nazionale. Ha dato molto loro in termini di assistenza sociale, diritto all’educazione scolastica, costruzione di luoghi civili dove insediarsi, ma non è stato ripagato con la stessa moneta. Pertanto saldandosi questi agli elementi incivili che contestano da francesi lo Stato francese si è arrivati alla rottura tra società e ordinamento.
Macron ne paga le conseguenze per non aver capito, dai tempi dell’apparizione dei gilet gialli, che la nazione si stava decomponendo. È questo il vero problema che suscita inquietanti interrogativi andando a prendere la metropolitana, recandosi al lavoro, pretendendo che venga tutelato il diritto a divertirsi. E probabilmente non abbiamo ancora visto tutto.
Se la reazione a ciò che sta accadendo dovesse coinvolgere i francesi che vogliono vivere senza la paura di uscire di casa un sabato pomeriggio, è facilmente immaginabile l’estendersi di una sorta di guerra civile, al momento a bassa intensità, ma non è detto che sia escluso un dispiegamento più vasto tale da coinvolgere tutta la Francia.
Del resto, i mille fuochi che sinistramente illuminano il Paese preludono proprio ad una guerriglia i cui esiti nessuno è in grado di preventivare. Lo scatenarsi della violenza contro tutto ciò che rappresenta lo Stato, dalle carceri alle caserme, dai municipi ai commissariati, dalle banche ai luoghi di ritrovo indica che la rivolta non si fermerà, che feriti, arrestati, fermati sono destinati a crescere, che lo stato d’assedio nel quale molte città, a cominciare dalla capitale, vivono, non sarà breve e le conseguenze implicheranno l’espandersi della intolleranza, della diffidenza, dell’inimicizia. Vedo già entrando in piccoli negozi magrebini del centro di Parigi, per comprare qualche bottiglia d’acqua o di latte, che l’ammiccante sorriso del rivenditore è sparito dal suo volto. Nel cuore di Parigi la battaglia è arrivata ad intermittenza, ma se Macron avverte i suoi connazionali di tenere i ragazzi chiusi in casa, riferendosi crediamo ai rivoltosi o ai più esagitati, vuol dire che si sta preparando qualcosa di mostruoso per questi nostri tempi segnati dalla disordinata accoglienza e dalla incapacità di mettere al riparo le città dai distruttori ormai diventati professionisti del caos.
Un paesaggio di macerie si presenta a chi si avvicina alle banlieues. Le devastazioni sono impressionanti. Ciò che resta di palazzi, negozi, scuole, auto, dopo gli incendi e gli assalti dei gruppi più violenti richiama alla memoria le peggiori guerre razziali che abbiamo visto molti decenni fa in America dove peraltro si stanno riproducendo ispirando forse i violenti francesi.
Non è detto che il “contagio” non si allarghi ad altre nazioni europee. Quando non si sanno governare integrazione, assimilazione e immigrazione il meno che può capitare è vedere una Parigi ridotta ad un pachiderma sul quale si esercitano, in assenza di uno Stato efficiente, avanguardisti della distruzione animati dal risentimento, dal rancore, dallo spirito di vendetta contro i ceti più abbienti.
La Francia è il ventre molle dell’Europa. Purtroppo governata da un’oligarchia estranea allo spirito di concordia, ma espressione della salvaguardia della minoranza che l’ha voluta al potere.