Se si dovesse rappresentare ogni decennio con un singolo volto, quello di Françoise Hardy sarebbe un valido candidato per gli anni ’60. Se ne andata tre settimane fa a ottant’anni. Nonostante si fosse ritirata dalle scene, la Hardy era la memoria storica di un’epoca: ma ieri il linfoma che la perseguitava da vent’anni l’ha consegnata alla storia. Storia del costume, prima che della musica: nonostante sia stata interprete di canzoni epocali (da “Mon amie la rose” a “Comment te dire adieu”) e album di gran valore (“La Question” è un monumento della canzone francese), la Hardy ha segnato l’immaginario pop prima come personaggio e per l’appunto come immagine, poi come “chanteuse”; agevolata in questo dalla bellezza angelica (e un po’ spettrale), dal portamento aristocratico (seppur fosse di umili origini) che l’hanno resa l’esempio supremo dell’eleganza parigina. Cantante ma anche fotomodella e recalcitrante attrice (quasi mai in film validi, a parte “Grand Prix” di Frankenheimer e il cameo che conclude il pastiche di Clive Donner “Ciao Pussycat”: per il resto si è accontentata dei musicarelli, di una particina per Godard e del pessimo “Il castello in Svezia” di Vadim), fece scalpore sfilando con un abito di tessere dorate creato su di lei da Paco Rabanne (e osservato, prima che dagli ammiratori, da robusti gendarmi).
Alta, esile, volto inespressivo dominato dagli zigomi e sepolto sotto una chioma castana lunghissima, perennemente malinconica: l’idea da parte della stampa di farne il modello della “ragazza yé-yé” (più consono a Sylvie Vartan, che pure se ne disfece lasciando il testimone a Paperetta Yé Yé, fastidiosissimo e poco longevo personaggio dei fumetti Disney), per quanto assurda, funzionò, e più dei suoi dischi ebbero successo le riviste patinate con i suoi servizi fotografici: Hardy in motocicletta, Hardy che finge di scattare foto indossando occhiali da sole ingombranti, Hardy che mangia il gelato, Hardy con Dalì.
Non per nulla la RAI trasmise un video promozionale per “Il pretesto” (versione italiana di “Comment te dire adieu”, scritta per lei da Serve Gainsbourg, impreziosita da una pronuncia improbabile: “non voglio un pretezto per pietà / tu zai che detezto la zlealtà”) con co-protagonista Renato Balestra che le fa provare degli abiti nel suo atelier romano. Eppure la Hardy era un personaggio complesso: donna colta e difficile, timida e litigiosa, spesso preda di ansia e depressione, la sua aria triste non era solo una posa. Esperta di astrologia tanto da pubblicare dei manuali e concionarne con autorevolezza in televisione (clamorosa la discussione in cui diede una regolata a Elizabeth Tessier, poi riconosciuta ciarlatana) e alla radio, dopo i primi amori infelici spezzò molti cuori (Bob Dylan quando riuscì a incontrarla non spiccicò parola, David Bowie si confessò troppo tardi, e la cantante brasiliana Tuca, autrice di buona parte di “La Question”, non si riebbe mai dall’incontro con la bellissima collega parigina), sino al matrimonio infelice con Jacques Dutronc, la cui infedeltà è stato il dolore più costante nella vita della Hardy.
Come la canadese Joni Mitchell (che nonostante alcuni tratti in comune con la Hardy – l’iniziale lancio come “bella ragazza che canta”, l’etichetta di rappresentante d’una sottocultura: yé-yé la francese, hippy la Mitchell, la ritrosia nell’esibirsi in concerto, e il brusco passaggio da un decennio di dischi meravigliosi a un lungo periodo con molte idee delle quali poche buone – è un’artista tanto diversa, e parecchio superiore), la Hardy ha costruito il suo canzoniere sui fattacci propri. Come Joni Mitchell ha in un primo momento trasformato i propri dolori in canzoni meravigliose quali “A Case of You” e la persino più lancinante “Little Green”, per poi scatenarsi nel cattivo gusto delle reiterate invettive contro Jackson Browne, così la Hardy che dapprima riusciva addirittura a ironizzare sui propri patemi (“Et si je m’en vais avanti toi”) poi è scaduta nel kitsch di “Message personnel” (in Italia soltanto “Piange il telefono” e “Il maestro di violino”, i due deliri di Modugno, reggono il confronto) e “Entr’acte” (grottesco concept album a luci rosse): la sua sola canzone decente in tutti gli anni ’80 resterà “La sorcière”, brano di un musical per bambini (“Emilie Jolie”).
Rimasta quasi inattiva in tutti gli anni ’90, ormai consapevole di essere fuori tempo massimo, si salverà così dal ridicolo in cui si sono poi gettati i suoi coscritti italiani (da Little Tony e Bobby Solo a Rita Pavone, da Al Bano ai Ricchi & Poveri, volonterosamente consegnatisi al trash televisivo), per poi dividersi negli anni Duemila fra duetti con artisti più giovani i quali così facendo ne attestavano lo status di leggenda della musica pop, e gli ennesimi lavaggi di panni sporchi in pubblico (a un bellissimo libro di memorie – “Les désespoir des singes: et autres bagatelles”, 2008 – è seguito un bruttissimo romanzo autobiografico – dal banalissimo titolo “L’amour fou”, 2012 – vendetta per l’adulterio di Dutronc con la sventurata Romy Schneider: un minimo di pietà per una vita così breve e infelice sarebbe stato gradito).
Sic transit gloria mundi: terminati finalmente e pietosamente questi vent’anni di tormento, ricorderemo Françoise Hardy anche per la sua inquietudine, ma soprattutto per la sua bellezza (la forma può anche essere sostanza), ossia per essere stata una delle immagini più belle di un’intera epoca; e ancora più per le sue canzoni, da “L’amitié” a “Des ronds dans l’eau”, da “Voilà” a “Les temps de l’amour”, da “L’anamour” a “La maison où j’ai grandi”.