Ogni volta che affronto un argomento storico, sento quasi l’esigenza di dovermi giustificare. A cosa serve intrattenersi a raccontare avvenimenti o figure del passato? Soprattutto quando l’attualità offre tanti argomenti, come in queste settimane. Assomiglia a quell’altra domanda: a che cosa serve la cultura? Quando con la cultura non si mangia? Comunque sia anche questa volta mi trincero dietro la frase: “chi sbaglia storia sbaglia politica”. E sulla figura di Giuseppe Garibaldi, posso scrivere con certezza assoluta, si è sbagliato molto.
Per non continuare a sbagliare c’è un ottimo testo che va inquadrato in quell’opera di revisionismo storico necessario per non continuare ad avere una memoria storica “drogata”. Si tratta di «L’Iperitaliano. Eroe o cialtrone? Biografia senza censure di Giuseppe Garibaldi», di Gilberto Oneto, edito da Il Cerchio di Rimini. L’opera intende fare una biografia senza censure di Garibaldi, sfata quella mitologia che è stata costruita attorno al nizzardo.
Tempo fa un presunto amico in un post su facebook, si è risentito perchè nella mia recensione al libro di Riccardo Pazzaglia, “Garibaldi ha dormito qui”, avevo definito il “padre della patria” un personaggio mediocre. Ecco credo che anche il professore Oneto giunge più o meno alla mia stessa dissacrante definizione.
Sicuramente Garibaldi è l’italiano più conosciuto nel mondo. Non c’è paese in Italia che non abbia un monumento, una lapide, una via a lui intitolata. Anche se recentemente, soprattutto al Sud, ci sono tentativi per cancellare il suo nome dalla toponomastica. «Per più di un secolo – scrive Oneto – è stata la più rassicurante icona del patriottismo, è stato l’eroe buono, senza macchia e senza paura, l’eroe dei due mondi, l’uomo di cui ‘non si poteva parlare male’».
Ma è stato davvero così come lo descrivono i libri scolastici e certi sceneggiati televisivi? «Era davvero il coraggioso cavaliere in camicia rossa che lottava per la liberazione degli oppressi in ogni angolo del mondo? Era davvero l’uomo generoso e disinteressato che aveva scambiato un regno per un sacco di sementi? Ma, soprattutto, sapeva davvero fino in fondo quello che stava facendo? Era il protagonista responsabile e libero delle sue gesta?». Il libro di Oneto risponde a tutte queste domande, lo fa frugando fra le fonti, cercando biografie nei diversi studi sulla sua figura. E’ un testo ben documentato, ogni pagina è corredata da una serie di note.
Fino a qualche tempo fa, esisteva un ordine sottinteso: “non si può parlare male di Garibaldi”. La storia ufficiale di “regime”, non ammetteva critiche all’”eroe senza macchia e senza paura”. Infatti scrive Oneto, «l’oleografia beatificante non ammette dubbi né ombre, né accetta sfumature di grigio sull’icona immacolata di Garibaldi[…] la sua immagine di eroe puro assume la granitica incontestabile valenza di dogma: è quasi il contraltare laico e anticlericale dell’illibatezza di Maria Vergine». Sostanzialmente è “l’eroe tout-court”.
La costruzione del personaggio è cominciata quando era ancora in vita, con le biografie e i libri, a cominciare dalle sue Memorie. Ancora oggi si trovano ristampe delle opere agiografiche che gli hanno dedicato Jessie White Mario e Alexandre Dumas. E dopo di loro una legione di ammiratori, scrittori “politicamente corretti”. «A tramandarne l’intoccabilità ci si sono messi in tanti: i risorgimentalisti, i monarchici, i repubblicani,i fascisti, i comunisti […]».
Il testo di Oneto ripercorre tutta la vita di Garibaldi, partendo dalla sua giovinezza, nel 1° capitolo. Offrendoci diversi aneddoti della sua vita. Il 2° e il 3° capitolo sono dedicati alla sua avventura in Sudamerica, in tutto dura dodici anni (dal 1836 al 1841) e viene suddivisa in tre fasi: due anni di attività corsara; quattro anni di guerra per il Rio Grande do Sul; e sei anni di guerra per l’Uruguay.
Dalle numerose fonti e documenti che Oneto riesce a procurarsi si desume che Garibaldi in quei primi anni abbia commesso atti di contrabbando e di pirateria pura, in particolare ai danni di navi spagnole, effettuate con la protezione degli inglesi, che miravano ad accaparrarsi il commercio su quei mari. Per questa attività Garibaldi si avvale di un gruppo di patrioti che assaltano tutte le navi che vengono loro a tiro e le depredano senza andare troppo per il sottile. Per fare questo Garibaldi otteneva una sorta di “patente” di corsa.
Nelle sue Memorie, queste attività vengono fatte passare come scelte di libertà, in favore di popoli che lottano per la loro indipendenza ed emancipazione. In realtà si tratta di guerre abbastanza ambigue, sostanzialmente secondo Oneto, Garibaldi sta combattendo per difendere gruppi di latifondisti, criollos, spietati sfruttatori del lavoro indigeno. Tra un’azione di guerriglia e l’altra, non gli impediscono di conoscere e frequentare le ragazze. Naturalmente di questo periodo Garibaldi ha un bel ricordo, «lui e una allegra brigata di corsari combattono (poco) contro gli imperiali, predano, terrorizzano la gente e se la spassano (molto) in feste, balli e scorpacciate di asado […]».
In questo periodo incontra Anita, un episodio di fondamentale importanza per inquadrare il personaggio Garibaldi. Oneto per descrivere il misfatto, come in pratica ha rubato la donna al calzolaio Manuel Duarte de Aguir, si avvale di diverse citazioni. Lorenzo Del Boca scrive che «probabilmente per conquistare il cuore di Anita fu necessario ammazzarle lo sposo».
Inoltre sempre nello stesso periodo Garibaldi si inserisce nel lucroso commercio degli schiavi negri, ancora una volta si comporta da pirata, assalendo navi mercantili isolate e uccidendo inermi marinai. «Le zone attorno alla laguna Dos Patos sarebbero il teatro di gran parte delle bravate di Garibaldi e dei suoi, che assaltano anche i villaggi interni dei contadini, facendo razzie, rubando oggetti di valore e violentando le donne». Proprio in questo periodo, Garibaldi, incomincia a portare i capelli lunghi, «forse per nascondere la mutilazione al lobo di un orecchio».
Sono interessanti i particolari riportati da Oneto come la bandiera nera con dipinto il Vesuvio, della legione italiana comandata da Garibaldi, gente disperata, dedita a rapine, con camicia rossa, fatte da uno stock di stoffe rosse destinato alla confezione dei grembiuli dei macellai, i saladeros. Comunque sottolinea Oneto, Garibaldi è destinato sempre a comandare equipaggi, ciurme di avventurieri, disertori, veri cavalli sfrenati. Con questi volontari italiani, nasce il giornale Legionario italiano, che enfatizza le azioni banditesche dei fuoriusciti italiani.
Il giornale pubblica un florilegio di atti di eroismo, in parte inventati di sana pianta, dove sono protagonisti i nostri italiani. Per Oneto questa raccolta di particolari «è una delle prime grandi campagne promozionali di stampa, un vero e proprio lancio pubblicitario di eroi di carta, il primo esempio di invenzione di personaggi mediatici». Il giornale viene diffuso anche fuori dall’Uruguay, così ben presto si viene a creare «la leggenda degli “eroici” legionari italiani e del loro ancor più ‘eroico’ comandante». Ormai è fatta il mito Garibaldi era stato creato.
Tuttavia il bilancio politico e militare dei dodici anni trascorsi in Sudamerica di Garibaldi per Oneto sono abbastanza negativi. Garibaldi e la sua truppa, tranne in piccole scaramucce, inanellano solo sconfitte, precipitose fughe e ritirate, nonostante le menzogne raccontate da Dumas.
Nel 1848 ritornato in Italia, fa in tempo a partecipare alla Repubblica Romana, ma prima di arrivare a Roma, Garibaldi deve affrontare diverse scontri con gli austriaci. Anche qui Oneto li racconta facendosi aiutare delle sue fonti come Montanelli e Nozza che raccontano, «ovunque andasse gli toccava esigere soldi e cibo, con il che certo non aumentava la propria popolarità. Diceva di avere diritto di farlo perchè a Milano era stato eletto duce dal popolo e dai suoi rappresentanti […]».
Quando scopre che il Pontefice era stato cacciato da Roma, si precipita nella capitale con la sua legione, i suoi seguaci. E’ interessante la descrizione che fa Alfonso Scirocco: «un misto di rissosi e idealisti […] la maggior parte era gente che, per ragioni politiche o altrimenti, doveva condurre un’esistenza vagabonda, con nulla da perdere e tutto da guadagnare nella violenza […]l’elemento contadino è mancato sempre[…]». Oneto ci tiene a precisare la descrizione particolareggiata dei seguaci di Garibaldi, cita ancora Indro Montanelli e Marco Nozza: «Sembravano una banda di selvaggi o di pellirosse. Davanti era Garibaldi[…]». Poi via via tutti gli altri con «gran pistole e pugnali al cinturone, da cui pendevano regolarmente tacchini e galline. Ad ogni alt,Garibaldi si arrampicava sul campanile del paese o villaggio più vicino per scrutare l’orizzonte, mentre i legionari si scatenavano nei dintorni alla razzia col laccio. Tornavano con vitelli,maiali, polli, che venivano squartati e arrostiti sul fuoco di legna[…]».
L’ingresso della Legione a Roma è stato descritto da osservatori contemporanei come quello di una torma pittoresca, bizzarra e inquietante. E sono diversi gli episodi inquietanti dove sono protagoniste le varie bande in quel momento a Roma. Romano Bracalini, tra tanti episodi, ricorda dei tre gesuiti scannati e fatti a pezzi sul ponte sant’Angelo.
Infine Oneto descrive la drammatica ritirata e poi la fuga di Garibaldi e del suo esercito, quando Roma viene riconsegnata dai francesi al Papa. In questa fase resta ancora un mistero la morte di Anita, Qualcuno sostiene che i segni di strangolamento sul corpo di Anita potrebbero essere ricondotti a Garibaldi, che ha posto fine alle sofferenze della donna incinta.
Tra ritiri e ritorni, tra delusioni d’amore, Garibaldi ha sempre l’idea fissa di fare l’Italia. Intanto Cavour e gli inglesi segretamente stanno “preparando”, la conquista del Regno delle Due Sicilie. L’uomo giusto è sempre Garibaldi, che in un primo momento è abbastanza indeciso, non vuole fare la fine dei fratelli Bandiera o di Pisacane e trovare la morte in qualche oscura località meridionale.
Garibaldi vuole la garanzia che la spedizione vada a buon fine, a questo ci pensa Giuseppe La Farina a nome di Cavour. I capi militari della spedizione, sapevano di poter contare sul supporto logistico del Governo sardo, una volta effettuato il primo sbarco. «Il Generale è vittima di giochi che si svolgono sopra la sua testa, e di cui lui crede invece di essere l’artefice. Cavour, gli inglesi e cento altri registi più o meno occulti hanno deciso tutto […]». Sostanzialmente per Oneto, «Garibaldi è prigioniero di un ruolo teatrale che lui stesso ha pesantemente contribuito a costruirsi addosso e da cui non può più liberarsi».
Il libro descrive la spedizione nei minimi dettagli, dà conto dei numerosi finanziamenti, l’acquisto dei fucili, delle navi il Lombardo e il Piemonte, sul numero esatto dei cosiddetti Mille. Anche qui, «Ancora una volta la banda di volontari che si accoda a Garibaldi è una variopinta accozzaglia di idealisti, di sbandati, di mercenari, di intellettuali, di cialtroni e di delinquenti». Lo stesso Garibaldi in un discorso, descrive la sua truppa di origine pessima e per lo più ladra; e tranne poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto». Anche se poi nelle sue Memorie modifica la descrizione.
Vale la pena riportare la descrizione dei Mille del professore Oneto: «in realtà è quasi tutta gente che scappa da qualcosa o da qualcuno e che cerca qualcosa […] c’è chi scappa da situazioni familiari o sentimentali, complesse, da delusioni (compreso il Generale), da conti con la giustizia, da mariti cornificati, da mogli e amanti tradite, da creditori. Molti lo fanno per puro ribellismo, è un po’ un mondo alternativo, da centri sociali».
Altra citazione significativa, per concludere l’argomento, è quella di Francesco Pappalardo, autore di un interessante libro, “Il mito di Garibaldi”, già presentato ai miei lettori: «l’episodio più celebrato del Risorgimento, l’unico che potrebbe rivendicare i caratteri di epopea popolare, si configura dunque come un’operazione di pirateria, compiuta da un gruppo di uomini armati non aventi alcuna legittimazione giuridica e condotta contro le più elementari norme del diritto, con l’obiettivo di ribaltare le istituzioni legittime di uno Stato sovrano sa sempre riconosciuto dal consesso delle nazioni e benedetto dalla suprema autorità spirituale».
Naturalmente ormai dopo tanta pubblicistica, credo nessuno potrà ancora credere alle favole raccontate a partire dalle scuole elementari sulla conquista del Sud da parte di mille uomini. Non si possono negare tutti i tradimenti della classe dirigente borbonica, del ruolo che ha avuto la criminalità organizzata. Il ruolo dei vecchi generali, ufficiali, che hanno tradito il loro giovane legittimo Re. Del grande supporto che hanno dato gli inglesi all’impresa (in particolare l’ammiraglio Mondy), sempre pronti a intervenire nei momenti di criticità.
C’è una dichiarazione molto indicativa che ha fatto il deputato piemontese Pier Carlo Boggio, intimo amico di Persano, il quale spiega come si sono svolti i fatti e come «l’avventura garibaldina si sia dimostrata una facile passeggiata militare solo grazie all’opera di diplomazia e di corruzione esercitata dal governo sardo». E quando Garibaldi si era montato troppo la testa, criticando il comportamento ambiguo di Torino, che non gli consentiva di andare a prendere Roma, interviene ancora Boggio: «stai attento Giuseppe, perchè se non ti rendi conto di quello che sei (se non ti ricordi che sei arrivato a Napoli senza colpo ferire solo grazie alla corruzione sistematica realizzata dagli emissari di Cavour con i soldi piemontesi e inglesi) spiattelliamo davanti al mondo le tue ‘eroiche’ gesta. Vuoi davvero che rendiamo di pubblico dominio in che modo hai ‘ liberato’ gli abitanti del regno delle Due Sicilie?». Per restare nell’attualità politica italiana, assomiglia molto agli avvertimenti fatti all’attuale presidente del consiglio Giuseppe Conte.
L’intero testo del Boggio è stato pubblicato da Angela Pellicciari, “I Panni sporchi dei Mille”. E così si comprende anche perchè ingiustamente e significativamente il deputato torinese è stato dimenticato dalla storiografia di parte patriottica.
Nel 10° capitolo vengono descritti i pochi mesi di governo garibaldino a Napoli. Si ricorda la vendetta nei confronti di tutti quelli che sono stati ritenuti responsabili della morte di Pisacane, tutti eliminati. «In generale, la stagione garibaldina a Napoli può essere considerata come la più grande rapina della storia italiana moderna. Questa coinvolge le ricchezze contenute nelle banche, nei musei, nelle regge, negli arsenali e anche nelle casse private di molti cittadini». Con decreto, il 7 settembre, Garibaldi si attribuisce mano libera sui depositi pubblici del Banco delle Due Sicilie. Nelle casse napoletano c’erano circa 165 milioni di lire piemontesi, (750 miliardi di euro di oggi).
Praticamente scrive Oneto,«un esercito di postulanti e di patrioti famelici si getta sulle ricchezze napoletane: tutti hanno richieste più o meno legittime, tutti-amministrazioni comunali e privati cittadini-hanno un risarcimento da pretendere, una pensione, uno stipendio, un favore, un appalto, una concessione da ricevere, un danno da farsi risarcire, ‘spese insurrezionali’ da coprire». Naturalmente per far fronte a tutte queste richieste si ricorre al Tesoro, ai depositi pubblici del Banco delle due Sicilie (che solo più tardi diventerà Banco di Napoli) le proprietà della Corona e quelle private del Re, fino ai beni ecclesiastici. Si comincia con la pensione alla figlia di Pisacane, 60 ducati (13.000 euro) e poi tocca alle sorelle di Agesilao Milano, viene concessa una somma di 2.000 ducati (450.000 euro).
«Il vero capolavoro di gestione patriottica – scrive Oneto – delle ricchezze (altrui) viene però concepito il 23 ottobre con un decreto che toglie dai beni della casa Reale 6 milioni di ducati (1.350 milioni di euro) da distribuire a tutti coloro che avevano subito ingiustizie e persecuzione da parte dei Borbone, ‘come sollievo delle passate sofferenze’. Si scatena una corsa furibonda a presentarsi come vittime, come parenti ed eredi di vittime[…]». E qui si scade nel tragicomico, Oneto, racconta che «Saltano fuori migliaia di liberali e di patrioti che sarebbero stati esiliati, carcerati, torturati e anche fucilati dai crudelissimi e – a giudicare dalla folla delle vittime – efficientissimi Borbone».
Il racconto continua sulle varie pensioni e risarcimenti che Garibaldi assegna a tutti, ci sono contributi anche per la Camorra, 75.000 ducati (17 milioni di euro). Francesco Guglianetti, segretario generale agli interni può affermare che ci sono stato diversi garibaldini, «partiti miserabili, sono ritornati con la camicia rossa e con le tasche piene di biglietti di mille lire».
Il testo si conclude con gli episodi del Volturno, dell’Aspromonte, Bezzecca e Mentana e il ritiro nell’isola di Caprera. Sono interessanti le ultime schede dove Oneto, fa una sintesi politica, ideologica, militare,e religiosa, del Mito e dell’Uomo Garibaldi. E’ da leggere e studiare, soprattutto, quella sul “Mito”, ci sono molti particolari che si ritrovano nello studio di Lucy Riall, “Garibaldi. L’invenzione di un eroe”.