L’errore della letteratura, specialmente indipendente, è spesso quello di relegare gli autori al tempo passato o all’incapacità del tempo futuro. Più nel dettaglio: con la scusa dei fasti antichi, ci si chiude spesso nella celebrazione di nicchia di pensatori che, invece, dovrebbero piuttosto alimentare le larghe masse ed essere resi noti a buon rigore; e, d’altro canto, con la solita lagna dei tempi che cambiano e, cambiando, presentano scenari inediti, li si condanna al silenzio perché “orami non si può più ragionare in dati termini”. Nel seguente pezzo, a dispetto di nascita e morte, e soprattutto in reazione a questo errato modo di procedere, per parlare di Giacinto Auriti si utilizzerà invece il verbo presente. Giacinto Auriti. È giurista, saggista e politico; cittadino ma anche trascinatore, instancabile “alunno” che apprende e competente docente che insegna, preside nella gestione di un micromondo culturale (la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Teramo) e anarchico nella contro-gestione di un cattivo modo economico di procedere. Ma Giacinto Auriti è prima di tutto nato in Abruzzo: terra di brigantaggio contro il signoraggio. Sarà dall’antropologia del “luogo che fa persona” che avrà recepito questo linguaggio così poco estrinseco nei fini e così decisamente umano, trasudato e sofferto di una concretezza che rinnega il predominio ingiusto, l’imposizione esterna, la sottomissione ascritta e specialmente l’usura.
Cos’è l’usura per Auriti? Rispondere a questa domanda mette in campo tutta la profonda intelligenza filosofica dell’autore, non offuscando ma seminando la sua successiva lungimiranza economica. Al retorico “ma voi volete essere proprietari o debitori della moneta che avete in tasca?”, l’autore fa precedere l’assunto per cui “la moneta deve essere di proprietà del portatore in quanto uomo: il portatore non ha confini di stato, né bilanci di stato. L’uomo è universale”. Dire “in quanto uomo” postulando un preciso ordine di intendimento della realtà e rafforzando l’apriorismo con l’universalità già basterebbe a fare di Auriti un filosofo che mette al centro la persona. Si può parlare, con collegamenti di vario tipo, di richiamo a Kant nella “Critica della ragion pratica” o nelle “Lezioni di Etica” o nella concezione cosmopolitica del mondo; di ritorno a Marco Aurelio o a Tommaso d’Aquino; di impianto hegeliano dell’uomo meritevole in quanto privilegiato collante tra mondo figlio dello spirito e spirito vero e proprio; di concetto di responsabilità dell’altro da Lévinas a Jonas, di cristianesimo personalista, di dottrina sociale della chiesa o di più scontata antropologia filosofica di Scheler, Plessner, Gehlen. Ma non è questo il punto e chissà se sia stato il suo punto. Il punto è il metodo: in questo modo di procedere che pone prima la persona e poi il suo ordine di cose, vediamo il “rovesciamento di pensiero” di Auriti rispetto alle scuole economiche tradizionali. Dire che “il valore non è una proprietà della materia” non significa non combattere poi i disagi o i soprusi della cattiva gestione della materia e muoversi dunque nel terreno economico-giuridico; ma significa previamente non impattare nelle concezioni che mortificano l’umanesimo in nome dello scientismo matematico. Un economista può infatti chiudersi in una gabbia di pensiero che finirebbe per dar ragione al marxismo o al liberismo o a qualunque altra corrente economica che sacrifica l’individuo con la scusa di aiutare l’individuo. Lo storico errore dell’economia è stato infatti quello di occultare l’uomo mentre parlava dei possessi dell’uomo, della vita dell’uomo, dei percorsi dell’uomo e della lotta dell’uomo; di non mettere a tema la persona mentre si decidevano teorie per farla vivere bene; di dimenticare l’individuo annidandolo tra struttura e sovrastruttura proprio coprendosi la bocca delle promesse escatologiche “di tempi migliori”. Mentre Auriti no: Auriti, nella sua più concreta genialità economica, non tralascia mai l’impianto filosofico ed anzi: rovescia i termini della catena causale e parte dall’uomo, per arrivare al suo portato economico e per poi tornare all’uomo in ognuna delle buone o cattive gestioni di questo portato, chiudendo un cerchio che nell’intera circonferenza ha il preciso intento di garantire la dignità umana.
Dignità umana mistificata perché marginalizzata, lasciata appannaggio di meccanismi asettici e falsità economiche che sono eretti a rango di dominio, controllo e schiavitù ma che effettivamente nemmeno esisterebbero senza la persona. Un automatismo nato dall’uomo, che ora soggioga l’uomo addirittura imbevendolo di una morale sganciata dal resto, così astratta da non poter essere contestualizzata nella sua violenza: questo denuncia l’autore abruzzese. Scrive infatti Giacinto Auriti: “Quando si riduce l’etica a derivato dell’economia, non si può ammettere altro sacrificio che quello economico spacciato sotto la parvenza di sacrificio etico, facendo credere che è giusto fare ciò che conviene piuttosto che fare ciò che è giusto”. Ciò che è giusto passa attraverso l’economia, ma non nasce dall’economia e non si ferma all’economia: è sempre e comunque implicata la persona, in cause e soprattutto conseguenze: “pagare un debito di moneta con altra moneta emessa a debito è impossibile. A lungo andare si pagherà con i propri beni, o con il proprio lavoro non retribuito, quindi: con la schiavitù”; “non possiamo più permettere che le generazioni future vivono tra l’angoscia ed il suicidio per l’insolvenza del falso debito pubblico”. Tanti hanno millantato un umanesimo, ma pochi hanno veramente posto l’umanesimo a germoglio, bussola e fine; Auriti sì. Senza essere filoso, ma attraverso la filosofia.