Giorni fa, durante le passeggiate col mio maltese “grandi taglie”, rimuginavo, come spesso mi accade in quelle circostanze, sul mio lavoro di scrittore, traduttore e giornalista di costume; in particolare, il flusso di pensieri e ricordi, ma anche di constatazioni relative al presente, mi trascinava dal passato al presente e da questo al futuro e poi di nuovo indietro nel tempo. Così, mi sono ricordato dei miei esordi, mezzo secolo fa, e del primo contatto con professionisti importanti, nel mondo del “Borghese” di Mario Tedeschi e Gianna Preda, di Claudio Quarantotto e Luciano Cirri. Quest’ultimo, all’epoca caporedattore, aveva conosciuto il fratello di mio padre, Silvio, frequentatore del Giardino dei Supplizi, dove si esibivano Antonella Steni e Pino Caruso, Pat Stark ed Elio Pandolfi, e dove suonava Pino Roccon, tutti attori e musicisti orientati a destra.
Saputo della mia passione per il giornalismo, Cirri mi aveva ricevuto in redazione e qui avevamo fatto una chiacchierata, per mettere in chiaro, come dire, il mio retroterra culturale e le mie aspirazioni.
Il colloquio era andato bene, anche grazie alla disponibilità di Luciano ed alla fiducia che riteneva di poter riporre in quel giovanotto senza alcuna esperienza nel campo, ma capace di studi e di buone letture: per questo motivo, riteneva opportuno farmi cominciare non dalla testata principale – il Borghese, appunto – votata alle battaglie politiche più che a quelle culturali, ma dal Conciliatore, mensile di cultura del “gruppo”. Ricordo che si scusò con me, perché l’Amministrazione non poteva pagarmi più di diecimila lire ad articolo (all’epoca ero già sposato precocemente, laureato in giurisprudenza come studente-lavoratore e dipendente dell’Azienda di mio zio Silvio, con uno stipendio di ottantamila lire mensili). Approdato ben presto al Borghese, di quella testata figurai come praticante, per poi ottenere nel tempo la tessera da Giornalista Pubblicista.Toccavo il cielo con un dito e immaginavo un futuro di successi, tanto più che pochi mesi dopo le Edizioni Mediterranee, a cui avevo proposto la traduzione di un testo di René Guénon, mi affidavano l’incarico di tradurre, di questo Autore, “Forme Tradizionali e Cicli cosmici”. Il compenso non lo ricordo di preciso, ma si trattò di una cifra fra le duecentocinquantamila e le trecentomila lire. Inutile dire che, dovendo mantenere una famiglia, non potevo concedermi un lavoro mal pagato, e dovetti optare, avendo la fortuna di poterlo fare, per altre attività, più in linea con un progetto di vita fatto di responsabilità verso moglie – casalinga, all’epoca – figli, mutui, bollette e così via, sempre però coltivando la mia passione.
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti, per me, per la professione e per il mondo intero. Limitandomi alla professione – che ho trasmesso a mia figlia – l’irruzione degli audiovisivi prima, di internet e dei “social” poi, ne ha comportato mutamenti profondi, ma ha mantenuto alcune costanti; la prima fra queste: difficilmente si “entra” se non sei presentato, da qualcuno. L’ho appena raccontato per me, e per mia figlia non andò diversamente: dopo il consueto tirocinio e gli esami di legge, fu assunta al Secolo d’Italia grazie al Direttore di allora, il mio fraterno amico Gennaro Malgieri.Sempre in tema di costanti e di cambiamenti, devo dire che nella mia lunga carriera, sia di giornalista che di scrittore (migliaia di articoli su decine di testate e una quindicina di libri, oltre a numerose traduzioni e prefazioni, non ho mai sottoscritto un contratto, ma sono stato pagato (quasi) sempre, con l’eccezione di articoli destinati a testate militanti). Ecco, sotto questo profilo, le cose sono cambiate: oggi, non solo chi è agli inizi della carriera, ma anche chi ne ha alle spalle una molto lunga, a meno di essere un “nome”, non viene ricompensato o riceve compensi risibili per il lavoro svolto. Si tratta di un caso unico fra le categorie di lavoratori o di prestatori di un servizio autonomo. Ricordo che Giorgio Locchi, uno dei miei maestri, all’epoca corrispondente del Tempo da Parigi, si paragonava al salumiere che vende prosciutti e formaggi (i suoi, peraltro, molto ben pagati). E lo diceva non solo per sfrondare di orpelli retorici la professione, ma per dare implicita importanza alla sua attività di studioso di filosofia e di musica, ignota ai più e svolta autonomamente, a titolo gratuito.
Ora, provate a immaginare un idraulico, un elettricista, un addetto alle pulizie, un avvocato, un medico e via elencando, che, avendo lavorato per voi, non solo non vi rilasci fattura, ma non richieda nemmeno la giusta parcella. Ebbene è proprio quello che avviene nel nostro campo, in nove casi su dieci, e i primi a non dolersene sono proprio i danneggiati, per motivi che non è difficile immaginare e che vanno dal peculiare narcisismo di chi scrive e si sente gratificato anche solo dal vedere stampati le proprie idee e il proprio nome, fino al timore di non essere più chiamati e sostituiti dai tanti che questo mestiere continua ad ammaliare (molto meno, incide la questione della militanza, a meno d’individuare nel giornalismo “gratis” una via per accedere alla professione di politico o di operatore dei media, comunque protetto da qualche politico).La conseguenza principale di una tale parabola sta nel fatto che pochi giovani, malgrado il fascino residuo della professione, si sentono di intraprendere questo cammino, caratterizzato, nel migliore dei casi, dalla precarietà – altro “fil rouge” di questo mestiere nel tempo – e dalle remunerazioni basse o nulle. E il silenzio continua, anche nella mia passeggiata serale.