• 2 Luglio 2024
Cultura

Guido Lupo Maria De Giorgio nacque a San Lupo, nel Sannio in provincia di Benevento, il 3 ottobre 1890. Figlio di un notaio, si laureò a Napoli in filosofia per poi trasferirsi a Tunisi, dove insegnò al liceo lingua e letteratura italiana ed entrò in contatto con ambienti esoterici islamici, in particolare con lo sheikh Mohammad Kheireddine, di cui fu discepolo. Qui fuggì con una sua cugina di nome Gilda, originaria della vicina Guardia Sanframondi e con la quale instaurò una contrastata relazione, dalla quale ebbe un figlio di nome Havis, nato a Tunisi nell’agosto del 1914, e due figlie, Ulmaire e Dj’mila, nate tra il 1915 e il 1916 a Varazze, sulla Riviera ligure, dove si trasferirono successivamente perché ivi il fratello Nicola De Giorgio esercitava la professione di medico. In un soggiorno parigino conobbe fortuitamente il metafisico René Guénon, con il quale strinse una profonda e proficua amicizia spirituale protrattasi nel tempo anche in numerosi scambi epistolari. In Italia entrò in contatto con l’esoterista Julius Evola – che lo definì un «iniziato allo stato selvaggio» – collaborando attivamente per alcune riviste da lui fondate e dirette come Ur, La Torre e Diorama filosofico, usando di volta in volta gli pseudonimi di Zero e Havismat. Dopo il soggiorno ligure, verso gli anni Trenta, si stabilì a Mondovì, sulle Alpi cuneesi, dove continuò a insegnare e si risposò con una giovane docente di scuola secondaria, sua allieva, dalla quale ebbe altri tre figli, tra cui Renato, così chiamato a testimonianza della sua amicizia con Guénon.

La sua vita fu segnata da diversi lutti e sconvolgimenti famigliari: il figlio Havis – addestrato dal padre secondo gli ideali dell’azione assoluta – si arruolò volontario nella Legione Universitaria di Torino all’inizio della campagna d’Etiopia, dove morì eroicamente in battaglia nel marzo del 1939: il padre si gettò a capofitto nell’impresa di onorarne in tutti i modi la memoria. Questo figlio “offerto” alla Patria ottenne la medaglia d’oro al valor militare: il nome Havis è un termine sanscrito che significa proprio “offerta sacrificale”, così come del resto uno degli pseudonimi scelti dallo stesso Guido De Giorgio, Havismat, è sempre un termine sanscrito che vuol dire “colui che compie il sacrificio”. Dopo la scomparsa prematura della seconda moglie nel 1953, la famiglia si spaccò, in quanto, su pressione, anche per le vie legali, del suocero, le figlie, la più piccola di appena un anno e la più grande di diciassette anni, andarono a vivere con la nonna materna a Savona, mentre solo Renato, di anni otto, per sua espressa volontà, rimase col padre, dalle condizioni di salute sempre peggiori, a vivere in una vecchia e malridotta canonica di montagna, in una piccola frazione del comune di Montaldo di Mondovì a 800 metri di altitudine, in condizioni precarie e sempre più disagevoli, dove infine si spense per un arresto cardiaco il 27 dicembre del 1957. Di quest’ultimo periodo Renato De Giorgio, in un’intervista rilasciata ad Enzo Iurato, disse: «Sarà per la mia giovane età, sarà per il mio carattere e la mia spensieratezza ma quegli anni vissuti con il mio papà sono tra i più bei ricordi della mia vita».

Di tutte queste traversie esistenziali, abbiamo testimonianze scritte nella sua corrispondenza.

In una lettera inviata a Massimo Scaligero nel dicembre 1940 – e pubblicata da Angelo Iacovella in appendice al suo intervento all’interno del volume collettaneo Esoterismo e Fascismo delle Edizioni Mediterranee – scriveva: «è bene che sappiate che la mia vita è qualcosa di molto vertiginoso e di raramente raggiungibile come ascesi desistenza. Chi vi scrive – sono circa le 12 – ha fatto ieri lezione tutto il giorno (preparazioni acrobatiche e non lezioncine dosate), ha sciato, ha corso, è andato a letto alle 4 del mattino, si è levato alle 6, ha fatto l’abluzione fredda, ha fatto lezione, scrive a Voi, riparte in bicicletta, va a fare altre lezioni a Mondovì, ritorna di notte, rifà lezione… Quest’uomo è fottuto: ha un rene marcio, una gamba fasciata, ha una famiglia rovinata, è circondato da morti, soffre di torture fisiche che durano 7, 8 ore, quasi quotidiane, va sui monti, è in piedi, era signore e aveva servi e cavalli e ora non ha nulla, non chiede nulla, (…), non deve nulla a nessuno, ha tutto perduto, è solo a provvedere alle sue creature, può fare altro e dà lezioni».

In un’altra lettera inviata ad André Préau dell’aprile 1954 – e riprodotta in appendice al volume Prospettive della Tradizione edito da Il Cinabro dove sono raccolti tutti gli articoli pubblicati da De Giorgio su Diorama filosofico – descriveva così le condizioni in cui viveva, il pessimo stato di salute in cui versava e l’amarezza per la perdita dell’unità famigliare: «in questa vecchia canonica che un giorno o l’altro ci cadrà in testa, c’è praticamente il caos, un ammasso, un accumularsi d’oggetti i più disparati… Se conoscete gli Arabi, c’è più o meno il loro ordine, un disordine epico: ci sono ragnatele annerite dal fumo che penzolano a un metro, un metro e mezzo dal soffitto… Infine l’inverno, il grande inverno è passato e noi siamo ancora in piedi: attualmente piove a dirotto e da un’ora cade la neve… Non ci sono tegole sul tetto: delle pietre mal messe, e ciò fa sì che piova da tutti i lati e bisogna dislocare tutto un esercito di vecchi recipienti di ogni tipo… Le mie mani sono straziate dalle screpolature (…) Il padre di mia moglie, uno sporco comunista, mi ha denunciato al Tribunale di Torino e questi giudici, irritati a causa di una lettera che avevo scritto loro, in seguito al rapporto dei gendarmi – che avevano interpellato dei furfanti, i quali hanno rilasciato una falsa testimonianza – hanno ordinato ai gendarmi di togliermi la ragazza che doveva essere affidata a sua nonna insieme agli altri due miei figli… è una specie di persecuzione (…) La mia famiglia è dissolta, non so più cosa succede a questi ragazzi … Ora attendo i gendarmi che mi toglieranno la ragazza, perché sono molto strano (è l’espressione utilizzata dai giudici), amo la solitudine, sto a gambe nude otto mesi lanno, giudico molto male la civilizzazione attuale».

In una delle sue ultime lettere del gennaio 1957, inviata al magistrato Alessandro Galante Garrone, che per un periodo fu pretore a Mondovì e con il quale De Giorgio ebbe stretti rapporti anche se spesso polemici, scriveva: «In ogni modo – se ci fosse salute, perché gli anni non contano – questa mia vitaccia sarebbe complessivamente bellissima, ma non c’è quella e allora diventa gotica, cuspidale, aerea … Da 15 o 20 giorni ho una tosse spastica, squassante, un uragano, con asma e altro, e, naturalmente in piedi, nella neve, come se non lavessi: sottolineo: tutta la mia vita così, come se stessi bene, come se fossi un colosso, come se fossi giovane».

Da questi squarci epistolari si evince una vertigine esistenziale che non fiacca l’animo dell’uomo ma anzi lo fortifica, esaltando la sua tensione spirituale che non ha mai abbandonato, nonostante tutto, la sua costante ricerca del divino. Sulla sua lapide è scritto: «Per tutta la sua vita cercò con tutto il cuore orizzonti immensi. Affidò la sua sete di grandezza e di martirio sulle montagne. Attese l’ora di Dio nel respiro potente della preghiera cristiana».

L’esistenza di De Giorgio è infatti contraddistinta da questa forte tensione spirituale racchiudibile fra due «parentesi», secondo il suggerimento di Enzo Iurato offerto nel suo intervento De Giorgio tra parentesi”: da Mohammed Keireddine a Padre Pio tenuto in occasione del convegno organizzato a Roma da Cinabro Edizioni nel novembre 2017: queste parentesi sono «costituite dalle due vie di approssimazione al sacro che egli ha percorso durante la sua vita. In coincidenza con i suoi domicili geografici egli ha infatti usufruito delle opportunità corrispondenti praticabili: in Tunisia il sufismo, in Italia il cristianesimo concretamente incarnato nella figura singolare di Padre Pio». Quest’ultimo, infatti, rappresentò per lui, come Kheireddine per il sufismo durante la fase tunisina della sua vita, «un punto di riferimento fondamentale», in quanto a lui contemporaneo (nonché coetaneo e conterraneo, in quanto Pietrelcina dista pochi chilometri da San Lupo!) e al quale dedicherà un’attenzione particolare, fino alla fine dei suoi giorni: dalle Alpi, San Pio da Pietrelcina lo richiamò alle sue origini sannitiche: andò spesso a trovarlo e si avvicinò molto a lui, tanto da servirvi messa assieme, ne parlò molto con René Guénon nelle sue lettere e pubblicò un opuscolo a lui dedicato dal titolo Ciò che mormora il vento del Gargano… (firmato Havismat e uscito nel 1948).

Ed è questa tensione spirituale a tenerlo in piedi fra le rovine della sua vita.

«Insomma sono ancora in piedi», ripeteva in ogni lettera ribadendo ai suoi interlocutori la sua drittura interiore così scrivendo di sé stesso: «Quest’uomo che si è conquistata l’esistenza coll’eroismo del minuto, dell’ora, del coraggio tacito, ebbene (…), quest’uomo può e deve sorridere, sull’orlo della voragine, come il guerriero che fa della sua guerra il trionfo della pace».

Un carattere forte e marziale, quindi, e una vita vertiginosamente attiva che lo portarono ad alternare la stasi contemplativa ad un vivo dinamismo e ad un’azione dirompente avverso il mondo moderno ormai troppo lontano dal sacro e dalla spiritualità alla quale tendeva.

Nei suoi scritti numerose sono le invettive contro la modernità, senza esclusioni di colpi contro l’assetto politico e le istituzioni sociali dei suoi tempi. Sono noti, infatti, gli sforzi disillusi profusi da De Giorgio per un orientamento sacro del Fascismo dei suoi tempi, con le aspre critiche lanciate in opposizione alla vuota «retorica», allo «pseudo-fascismo», al «fascismo dei tiepidi» e ai «fascisti nel nome e non nella cosa». All’indomani dell’Italia liberata e svilita dalla prostituzione dei partiti, scrisse un agile ma acceso pamphlet – che nessun editore ebbe il coraggio di pubblicare – dal significativo titolo La Repubblica dei cialtroni, di cui purtroppo si hanno solo poche notizie e nessuna traccia.

Accese furono le sue denunce anche verso la secolarizzazione della Chiesa: attaccò gli «pseudocristiani», definiti spiritualmente «tiepidi» in quanto malamente suggestionati dal «bestiale umanitarismo» che, già allora, aveva sostituito alla «divina carità cristiana» il «fetido sentimentalismo umano e sociale di coloro che ignorano, misconoscono, negano Dio».

Il suo impegno da professore lo portò nei primi anni Cinquanta a redigere uno scritto d’indirizzo sulla scuola e sulla sua funzione, in particolare in rapporto alla religione, alla famiglia e all’insegnamento della scienza moderna, oggi nuovamente apprezzabile nell’edizione pubblicata da Cinabro Edizioni con il titolo Il problema della scuola.

Dirompenti furono i suoi serrati attacchi al mondo moderno – contro i suoi pregiudizi umani, morali, scientifici, estetici – attacchi e invettive che rendono palese tutta la sua attitudine attiva sempre perfettamente conciliata con una natura contemplativa e un carattere speculativo.

Tutta questa ‘piccola guerra santa’ intrapresa – verso l’esterno – da De Giorgio contro le aberrazioni del mondo moderno è assolutamente complementare alla ‘grande guerra santa’ che costantemente ha dominato – verso l’interno – tutta la sua esistenza.

La sua guerra non fu mai «guerra per la guerra», ovverossia un agire per l’agire, «un’agitazione sterile, un tumulto vano considerato come scopo a sé senza alcun riferimento a una verità superiore e a un bisogno spirituale che lo giustifichi». Grande fu – anche sotto questo profilo – lo sforzo di chiarificazione di un corretto intendimento dell’azione tradizionale e del suo rapporto complementare con la contemplazione, due vie legittime e speculari per giungere alla Conoscenza: «l’agitazione è di fronte all’azione ciò che lo sforzo è di fronte alla forza, uno strappo, una convulsione» e l’azione scade nell’agitazione anche qualora si cerchi di giustificare a posteriori «con un motivo più o meno etico e nobile, patriottico o civile» un agire che proceda pur sempre «da un bisogno puramente individualistico d’irrequietezza».

Solo chi sarà capace di scorgere nell’azione – che è guerra del guerriero – l’«inazione» – che è pace dell’asceta – sarà in grado di coniugare in sé i due estremi nella sintesi unitaria dell’ascesi guerriera che, come la contemplazione, può condurre alla Conoscenza.

Questa sintesi sarà raggiunta solo qualora l’azione stessa venga considerata nulla di fronte alla Realtà spirituale: nullificazione che può avvenire solo attraverso il «distacco» ovverossia «con la rinunzia ai frutti dell’azione».

La visione sacra della vita che permea tutta la sua opera è un vivo richiamo al «ritorno allo spirito tradizionale»: «non si può» – affermava – «vivere per vivere – materialismo – né vivere per pensare – idealismo – né vivere per sentire – estetismo – né vivere per agire – meccani[ci]smo –: la vita ha un senso soltanto se essa è (…) sacra».

I costanti richiami alla necessità di aderire a uno «stile» che «presupponga una norma», così come al grandissimo «valore ascetico» attribuito alla «fede» e all’«obbedienza» rendono l’opera di Guido De Giorgio un supporto fondamentale per un cammino spirituale.

Non solo perché l’«espressione personale» di De Giorgio, spesso «poetica» e travolgente, parla direttamente ai cuori piuttosto che alle menti, ma anche perché la conoscenza dottrinaria che è alla base dei suoi scritti può contribuire a formare e a consolidare una corretta consapevolezza del proprio percorso di ascesi spirituale.

Che dire, infatti, dei continui riferimenti al «mondo come campo di lotta, di esercizio, di prova», di «palestra» e di «stadio di corsa»? Che dire della «vittoria» su noi stessi che non è altro, per De Giorgio, che «una duplice battaglia dell’Intelligenza e del Cuore» affinché ci si sbarazzi dei «ceppi di un’illusione – il mondo – per giungere a una realtà» – a «una conquista» –, Dio»? Come non beneficiare del monito perentorio «o la vita è un rito o non è nulla»? Come ignorare l’appello «vince Dio chi perde l’io»?

Il tutto rinforzato e protetto da costanti e attenti chiarimenti sui contrari antitradizionali: cosa non è fascismo – ossia lo «pseudofascismo»; cosa non è cristianesimo – ossia lo «pseudocristianesimo»; cosa non è azione – l’agitazione; cosa non è ascesi – l’«ascetismo»; e, soprattutto, cosa non è Tradizione – il «tradizionalismo». Specificando, di volta in volta, anche le sfumature in cui è facile impantanarsi a causa delle insidie e dei tranelli della modernità: se l’opposto del sacrificio e del dono è sicuramente l’egoismo, lo è altrettanto il tutto moderno «ego-altruismo»; se il contrario dell’etica è intuitivamente l’immoralità, lo è anche e soprattutto il fallace «moralismo».

La sua vita vertiginosa e la sua «ascesi d’esistenza» sono allora esempio per un autentico «ritorno allo spirito tradizionale» e supporto all’acquisizione di una più profonda consapevolezza per chiunque, ancora oggi, abbia l’intenzione e la volontà di percorrere un cammino di rettificazione della propria coscienza e di semplificazione del proprio essere, coniugato ad un’esistenza votata all’adagio «militia est vita hominis super terram».

Le tappe e le fasi di questo «ritorno allo spirito tradizionale» e di «questa immensa restaurazione» della Tradizione – ancora auspicata perché possibile prima che si completi la fine di «questo» mondo – si compiranno, secondo le stesse parole ammonitrici di De Giorgio, «purché si proceda dall’interno all’esterno, dalla riforma delle coscienze e non dalla sola riforma dell’esistenza» politica o sociale: «il che sarebbe un compromesso ma non – di certo – una conquista».

Autore

Cultore di materie classiche e di studi tradizionali, è uno dei fondatori di Cinabro Edizioni, di cui anima le pubblicazioni, curandone la direzione editoriale. È, tra gli altri, membro della Redazione di Fuoco.