Nascevano, trecento anni fa, quelli che solo dalla seconda metà dell’Ottocento sarebbero stati chiamati “Concerti Brandeburghesi” e che Bach, nell’ossequiosa dedica al suo protettore, pensò semplicemente di chiamare assai didascalicamente “six concerts avec plusiers instruments” (letteralmente “sei concerti con molti strumenti”).
In quell’inizio di primavera del 1721 Johann Senastian Bach era da oltre tre anni al servizio del principe Leopold di Anhalt-Cöthen, in qualità di Capellmeister. Il principe Leopold (1694 -1728) era uno spirito musicale dal gusto raffinato, formato non solo in Germania ma anche in Italia, validissimo musicista. La sincera amicizia instauratasi fra i due consentì all’appena trentaduenne Bach di beneficiare di condizioni di vita particolarmente agiate, benchè egli sapesse bene che l’attività di musica al servizio di potenti o religiose fosse non priva di difficoltà e imprevisti. Infatti perfino l’idillio artistico creatosi fra il Margravio Leopold e il Cappelmeister giunse dopo non molto a termine, occasione che però condusse il giovane Bach a diventare maestro delle grandi chiese di Lipsia.
Inoltre, mentre alla luterana corte di Weimar, presso la quale Bach aveva prestato servizio fino a poco tempo prima, la musica sacra ricopriva un posto di grande importanza, come voleva la tradizione protestante, alla corte calvinista di Brandenburgo la musica era completamente vietata in chiesa, circostanza che permise a Bach, fino ad allora impegnato principalmente nella scrittura di musica a fini liturgici, di sperimentare le numerose varianti della musica da camera del tempo. Sappiamo poi che degli esborsi economici del piccolo principato oltre il 4 per cento del totale era destinato alla musica, in particolare al pagamento di virtuosissimi musicisti provenienti da tutta Europa e all’acquisto di prestigiosi strumenti, tra i quali spicca un costosissimo clavicembalo berlinese.
Tali condizioni favorirono dunque in Bach la prodigiosa onda creativa che condusse alla nascita dei “Soli” per violino e per violoncello, le Sonate per violino e cembalo, quelle per flauto e cembalo, quelle per viola da gamba e cembalo, le sontuose Ouvertures per Orchestra, i due Concerti per violino e quello per due violini, ma anche il primo volume del “Clavicembalo ben temperato” e le Suites francesi. Uno studio accurato sui singoli strumenti, sulla tecnica di ognuno di essi e la loro varietà timbrica, che portò dunque alla nascita dei concerti di cui oggi parliamo proponendo un’analisi, frutto principalmente di un attento esame delle partiture, la cui lettura ci consente pure di ricostruire quella che era la prassi esecutiva della corte di Kothen: molto probabilmente Bach dirigeva dal primo leggio suonando la viola da braccio, mentre il principe era solito suonare la viola da gamba o piuttosto il clavicembalo. Ricaviamo questa informazione dal fatto che frequentemente le parti per viola da gamba appaiono vistosamente più semplici rispetto a quelle destinate agli altri virtuosi musicisti.
La principale controversia fra gli studiosi riguarda l’appartenenza dei Brandeburghesi a una o all’altra delle due grandi famiglie dello stile di concerto del periodo tardo Barocco: il Concerto Grosso, sviluppato da Arcangelo Corelli e il Concerto solistico, di Antonio Vivaldi.
Più sono rigide, più le classificazioni tendono a semplificare. In realtà, almeno in parte la peculiarità dei Brandeburghesi consiste nel fatto che essi sono il frutto di un sofisticato e solitario sforzo compositivo volto a fondere la logica formale e strumentale del Concerto Grosso con quella del Concerto solistico. Possiamo ben dire che i Brandenburghesi fissano il punto di arrivo dello sviluppo musicale dal tardo rinascimento fino ai primi del settecento e costituiscono il potenziale punto di inizio di uno stile compositivo che però pare non avere avuto eguali nella storia. La ricchezza dell’organico strumentale è un unicum nella storia della musica nel periodo barocco. Fu proprio grazie all’influenza del principe Leopold che il compositore si cfonfrontò col nuovo genere del vivaldiano concerto solistico italiano. Già a Weimar Bach era venuto a conoscenza di quelle composizioni; Bach ne applica la forma anche al concerto per vari strumenti, al concerto grosso, per il quale valevano come modello e canone i Concerti di Corelli. Una fusione straordinaria, il cui risultato era l’espressione di un’idea secondo la quale gli episodi solistici non fossero fini a sé stessi, ma il completamento delle parti orchestrali e viceversa. Bach dunque modificò profondamente la forma vivaldiana, diminuendo il contrasto fortemente accentuato tra ritornelli del “tutti” ed episodi solistici, avvicinando le caratteristiche formali proprie di quei due elementi ed arricchendo la scrittura musicale di moduli polifonici e relazioni motiviche.
Il Primo Concerto Brandeburghese è scritto per quattro gruppi strumentali: corni, oboi, fagotto, archi; Bach aggiunse poi all’organico strumentale anche il violino piccolo, per il quale ha composto appositamente il terzo movimento, che in origine mancava, affidandogli importanti compiti solistici.
Dai diversi gruppi strumentali sopra elencati vengono poi scelti a volte singoli strumenti perché si accordino solisticamente col violino piccolo come in un duo, al punto che questo Allegro si avvicina fortemente al carattere del concerto solistico. Il primo movimento è costruito secondo un altro principio compositivo: qui i tre gruppi strumentali formano delle unità relativamente omogenee, che si alternano a vicenda, a meno che non siano fuse nel “tutti”.
L’Adagio, è particolarmente affascinante per le sue oscillazioni tonali: re minore come tonalità fondamentale appare solo marginalmente; il movimento inizia e termina nella tonalità della dominante la maggiore: all’inizio la tonalità fondamentale rimane incerta, svelata unicamente alla fine con un passaggio pieno di tensione, che immette nel terzo movimento, il quale, alternando i caratteri di Giga, minuetto e polonese, pare avvicinarsi maggiormente alle logiche compositive di una Suite, prendendo le distanze da quella del normale concerto solistico.
Nel Secondo Concerto Brandeburghese Bach riprende in maniera abbastanza esatta il tipo del concerto grosso dell’alto barocco tradizionale, pur potendo riscontrare influenze del concerto solistico vivaldiano. Nel concerto Bach unisce tromba, flauto dolce, oboe e violino, mescolandoli in maniera tale che si possano profilare sempre uniti di fronte al ripieno degli archi. Nell’ ultimo movimento, Bach si rifà al principio compositivo della fuga. Nell’Andante flauto, oboe e violino si uniscono in un terzetto solistico, accompagnato da un basso regolare del clavicembalo.
Nel Terzo Concerto Brandeburghese concertano tre gruppi di archi con il basso continuo. Qui Bach si dimostra pienamente consapevole della tradizione in un atteggiamento quasi arcaicizzante, ma impiegando allo stesso tempo una scrittura musicale “straordinariamente moderna” per quell’epoca. Così si fondono qui in modo originale elementi antichi e nuovi. Nella costruzione formale dei due movimenti veloci Bach unisce il principio concertante con la forma di rondò, facilmente riconoscibile nell’ultimo movimento, quasi nascosta nel primo; i due movimenti veloci sono uniti tra loro mediante due battute in Adagio, che sono da intendere come uno spunto per una libera improvvisazione solistica.
Il Quarto Concerto Brandeburghese, dove gli strumenti solisti sono un violino e due flauti dolci, si rivela chiaramente come un camuffato concerto solistico, data la chiara predilezione per il violino. Nel primo movimento con due tempi solistici indipendenti, Bach si è allontanato di molto dai concerti del compositore veneziano. Il Finale è una fuga, sulla scia del secondo concerto. La scrittura dell’Andante è orientata ai corrispondenti movimenti dei celebri Concerti grossi di Corelli, di cui è visibile l’intento pastorale conferito dalla delicata timbrica dei due flauti dolci.
Il Quinto Concerto Brandeburghese, nel suo primo movimento mostra ancor più chiaramente del Quarto Concerto la tendenza a trasformarsi in concerto solistico. Nel corso del primo movimento il clavicembalo è talmente messo in rilievo, che questo Allegro potrebbe essere considerato un vero e proprio concerto per tastiera ante litteram. Il punto culminante di questo processo di trasformazione in senso solistico è costituito dalla cadenza di 65 battute del clavicembalo. In realtà, il termine potrebbe essere considerato per certi aspetti improprio: queste 65 battute non costituiscono un episodio virtuosistico fine a se stesso, che nasce dalla sospensione del discorso musicale (com’è abitualmente nelle Cadenze dei Concerti solistici), ma sono invece la prosecuzione del movimento sulla base del nucleo tematico comune a tutte le parti, con una fluidità di linguaggio che mostra la miracolosa tenuta del complessivo discorso musicale. Nasce così il “nuovo” clavicembalo, quello che anche nel contesto orchestrale saprà ritagliarsi una parte da protagonista. In origine la suddetta cadenza contava circa 18 battute, ed è largamente probabile che Bach abbia ampliato questo nucleo primario seduto al famoso clavicembalo berlinese di cui abbiamo prima parlato.
Il Sesto Concerto Brandeburghese, che rispecchia in modo così evidente la prassi esecutiva alla corte del Principe Leopold, presentando la concezione timbrica più unitaria, rispetta i canoni del tradizionale Concerto grosso. Tuttavia gli strumenti vengono anche impiegati da solisti. Appare perciò difficoltoso distinguere le parti del “tutti” da quelle solistiche; è l’ennesima testimonianza della grande capacità di Bach di fondere inclinazioni moderne ad altre più tradizionali.
A oltre 300 anni di distanza, i Concerti Brandenburghesi continuano ad appassionare il pubblico e a “sfidare” migliaia di musicisti in tutto il mondo. Per una analisi ottimale dell’opera, è consigliato in particolare l’ascolto di due registrazioni, assai diverse fra loro ma entrambe efficaci e ispirate nelle loro diversità: quella di Karl Richter e quella di Claudio Abbado. Karl Richter è stato un grande bachiano, dalla straordinaria intelligenza interpretativa. Nella sua registrazione del 1964/68 tutto è regolare e compatto dal punto di vista timbrico: al sontuoso legato degli archi fa riscontro la rigorosissima scansione ritmica del basso continuo affidato al clavicembalo modello Neupert. D’altro canto, la più recente incisione di Abbado, sebbene meno omogenea timbricamente, restituisce perfettamente tutto lo spirito barocco che permea l’opera, grazie a una concertazione particolarmente fantasiosa.