• 2 Luglio 2024

La città, com’è bella la città – cantava Giorgio Gaber in risposta ad Adriano Celentano e la sua “Il ragazzo della via Gluck” – com’è grande la città, com’è allegra la città, piena di strade e di negozi e di vetrine piene di luci, con tanta gente che lavora e tanta gente che produce, se tu vuoi farti una vita devi venire in città. La città attira tutti, italiani e stranieri, perché promette opportunità ed emancipazione: è un modello di vita prim’ancora che una necessità di lavoro. Ma la città può anche diventare una giungla di asfalto e di cemento ed escludere invece di accogliere. Non ci si riferisce all’inquinamento – che non è più quello di una volta – ma alla funzionalità. La città, che continua ad essere il modello per eccellenza della vita associata, può trasformarsi in una periferia di centro, con umanità che vive ai margini pur stando nel cuore delle relazioni. Le città non sempre son facili da abitare. E non è solo questione di crisi degli alloggi – le case ci sono, sono perfino troppe – ma di vita cittadina che ingloba ciò che le è affine, utile e sicuro ed espelle ciò che è diverso, inutile, insicuro. Quest’ultimo caso è “La Città degli esclusi” (Edizioni ETS) come la chiama Fabio Ciaramelli fin dal titolo del suo libro con cui riflette tanto sulla città-modello quanto e soprattutto sulla città-esistente.

Il detto comune “tutto il mondo è paese” potrebbe essere reso attuale nella versione “tutto il mondo è una città globale”. Tutte le città tendono a funzionare allo stesso modo e ad avere le medesime disfunzioni: sono concepite come degli spazi urbani che hanno perso la loro civitas. Ciò che non si adegua e chi non si adegua è emarginato. In questo modo le città si portano dentro un rischio. Diventano, come diceva Zygmunt Bauman, “discariche”. E il rifiuto può essere liquido, solido urbano o umano. Che fare? Pensare – e praticare – la città non solo come rete di rapporti produttivi ma anche come vita di relazioni, dipendenze e autonomie, interessi e valori perché la stessa città globale è dentro una città più grande che possiamo chiamare città universale o città storica. La città universale è la città insieme visibile e invisibile di Italo Calvino, è quella che tiene insieme Gaber e Celentano, il corso e via Gluck, il benessere e il malessere perché la città per definizione è polis ossia polemos, conflitto interno, armonia dei contrari, consenso e dissenso. Come se ne esce? Non se ne esce, questo è il punto. L’unica cosa da fare è mettere a tema il conflitto che è la città, che può essere grande, media, piccola e perfino un piccolo paese, ma resta sempre città universale. In questo senso anche il paese – i nostri paesi, perché ognuno ha un paese da qualche parte – è una città universale. Ogni paese, ogni borgo, ogni comune è una città divisa e in conflitto con sé stessa. Ma i nostri paesi hanno, forse, qualcosa in più del grande centro cittadino: possono avere un ritmo di vita più lento, più umano e, se solo avessero delle buone comunicazioni con la città, diventerebbero delle risorse per sé e per gli altri. Compresa la grande città globale che è il mondo nel nostro tempo.

Autore

Saggista e centrocampista, scrive per il Corriere della Sera, il Giornale e La Ragione. Studioso del pensiero di Benedetto Croce e creatore della filosofia del calcio.