• 21 Novembre 2024
Foto di ROCCO STOPPOLONI su Unsplash Foto di ROCCO STOPPOLONI su Unsplash
Alimentazione

La zona del Matese così come buona parte del Sannio ha la caratteristica di essere un territorio prettamente montano, con la presenza di piccole valli costruite e plasmate dai corsi d’acqua del territorio stesso; il Volturno, il Calore, il Sabato, l’Isclero e così via e l’economia dei territori è sempre stata agro-pastorale o come definita da alcuni “agricoltura rurale del piccolo contadino”. Una economia che si basava sull’agro pastorale con piccole stalle che variavano da tre a 10 vacche, qualche ovino, qualche ettaro di terreno di proprietà sufficiente a sostenere gli animali, qualche maiale, un uliveto, un vigneto, qualche animale da cortile. Il tutto sufficiente per condurre una vita dignitosa economicamente e non solo, che permetteva il far studiare i figli, anche in un tempo dove l’istruzione non era proprio contemplata.

Un benessere di base, compensato da periodi brevi di emigrazione, (in alcuni casi purtroppo di migrazioni definitive) ma per chi rimaneva un sufficiente, anche se faticoso, tenore di vita. Ma il territorio nella sua bellezza paesaggistica, dai folti e verdi boschi, dalla abbondanza di acqua ma contemporaneamente in parte isolato e lontano dai grandi centri urbani ed industrializzati, era e resta un territorio rurale e periferico con una moltitudine di comuni ma con relativi pochi abitanti. Un luogo, o meglio luoghi così belli e conservati in un regime di vita quasi arcaico, con collegamenti e infrastrutture quasi marginali se non minimali, che ne hanno decretato a fasi alterne la precarietà dei beni elementari della vita, le incertezze delle prospettive concernenti il futuro.

La carenza in parte di assistenza e servizi sociali, l’asprezza della fatica nel quadro di una economia agricola “rurale del piccolo contadino” troppo delicata rispetto ai cambiamenti economici ciclici e storici, dove la memoria di comportamenti razionali efficaci con cui fronteggiare i momenti critici dell’esistenza costituivano da tempi immemori le condizioni del mantenersi anche di attività lavorative extra e diversificate che oggi sono difficilmente realizzabili.

Il territorio ciclicamente ad ogni crisi si è confrontato con una perdita di servizi, di assistenza sociale, di potere di acquisto ed un aumento consequenziale del volume stesso del lavoro, a compensare mancati guadagni che di fatto poi oggi non si compensano affatto.

La strutturazione economica di tali territori è antica e risale come organizzazione al XIII secolo, in particolare con il Regno di Ruggero II il Buono e la seguente monarchia di Federico II di Svevia. Fu in questo periodo tra il XII ed il XIII secolo che fu posta attenzione alle capacità dell’agro-pastorale del Regno, in particolare per quelle aree che anche al tempo erano considerate relativamente depresse, come appunto l’intera area del Sannio antico, comprendente non solo la catena del Matese-Taburno, ma anche delle Mainarde e del Partenio. Venne a crearsi per volontà economica e dunque non a caso, l’incremento per tali zone degli elementi produttivi agricoli e pastorali della piccola agricoltura, non molto diverso da ciò che è stato in un non lontano passato e di cui prima è stato descritto. Piccola produzione che permetteva anche la vendita del surplus produttivo. Tale economia si è protratta in pratica fino alla regolamentazione veterinaria partita negli anni 2000 e dell’implemento dell’uso dei mangimi e delle nuove regole alimentari e produttive in particolare per i bovini da latte dettate da Bruxelles a partire dal 2000. Ma i cambiamenti sono avvenuti anche per le produzioni cerealicole con l’incremento di varietà ad alta produttività standardizzate in pratica in tutta Europa, a discapito di varietà a minor produttività ma di migliore qualità e di maggior areale di semina. Un esempio è stato per il Meridione d’Italia il grano  che poteva essere seminato anche a 700 metri di quota resistendo alla rusticità dei suoli, molto apprezzato dai coltivatori per la resistenza intrinseca non necessitando di anticrittogamici e antiparassitari. Inizialmente sostituito da altre cultivar italiane è poi quasi scomparso, nell’ultimo decennio vi è statoun recupero della produzione di tale cereale poiché la sua farina è ad alta digeribilità ed ottimale se non superlativa per la produzione di pasta, pane e pizza. Tornando alla piccola economia contadina, a partire dal 2000 vi è stato un costante incremento dei prezzi dei mangimi e richieste e legislazioni specifiche per la produzione di latte e derivati del latte. Il costo dei mangimi è aumentato di 10 volte, con invece il prezzo del latte uguale a quello di 25 anni fa; e mentre al tempo una vacca che produceva 20 litri di latte giornalieri (minimo sindacale) si ripagava con quattro mungiture l’acquisto del mangime per sé stessa, il costo dell’elettricità e delle spese di produzione di fieno, oggi occorre fino al 70% della produzione di latte di ogni singolo animale per coprire le spese, sperando che non vi siano inconvenienti. Oggi una stalla con tre animali non ha alcun guadagno, al contrario è una perdita costante considerando l’obbligatorietà non solo delle visite periodiche veterinarie e dei suoi costi, ma anche la struttura della stalla stessa secondo parametri di igiene e profilassi che hanno un elevatissimo costo di costruzione e ancor più di ristrutturazione. Basta pensare che i produttori della Media Valle del Volturno ammontavano nel 1998 a oltre 4000 imprese (4220 circa), oggi ne restano meno della metà per gli insostenibili costi. Se pensiamo, ancora con agli animali da cortile ad esempio le galline; oggi se ne possono possedere un numero massimo di 10, oltre vanno dichiarate al servizio veterinario e le uova delle 10 galline non possono essere vendute al minuto. Lo stesso discorso vale per i conigli, le quaglie, le oche e quant’altro e tutto ciò ha rappresentato una perdita economica dettata in passato dalla vendita al minuto degli animali da cortile stesso e dei loro derivati. Indubbiamente le regolamentazioni in merito sia veterinarie che di igiene pubblica sono indiscutibili, ma regole adatte ad esempio per il Nord della Germania (per le zone rurali ad esempio) non possono essere valide economicamente per le realtà come il Sannio. Lo stesso discorso vale per l’industria boschiva, la quale è una attività periodica improntata quasi completamente alla produzione di materiale da riscaldamento, carbone e carbonella destinata si all’esportazione ma che impegna le imprese boschive solo per alcuni mesi l’anno. In passato erano le piccole stalle che sostenevano i lavoratori del settore boschivo nei periodi di fermo taglio. E dunque la perdita economica dettate dalle “regole” come descritto ha portato molti produttori a chiudere le attività, creando dunque la condizione per l’emigrazione e del conseguente crescente abbandono dei borghi, che sono dal medioevo la spina dorsale dell’urbanizzazione del territorio Sannita e che si sono espansi ben poco rispetto a 500 anni fa.

L’economia descritta valevole per le nostre terre, si associava poi al Terzo Settore bilanciando le attività e l’economia stessa equilibrandola così all’interno di ogni famiglia del piccolo contadino, dove spesso un figlio era un dipendente del Terzo Settore un altro era continuatore delle attività di famiglia. Tutto ciò non esiste più, le crisi economiche succedutesi nel 2008 e nel 2012 hanno decretato una riduzione dei servizi (Terzo Settore appunto) con la chiusura ed il ridimensionamento delle strutture e quindi una perdita dei posti di lavoro, un incremento dei prezzi che ha flagellato gli allevatori ed i contadini delle aree rurali portandoli alla chiusura delle attività e ad un implemento dell’emigrazione che nel Sannio ha raggiunto nel 2012/2013 la percentuale del 13% della popolazione, cosa che le nostre terre avevano visto solo nel periodo 1903-1910, massimo periodo di emigrazione italiana. Ma eravamo allora agli inizi del XIX secolo, negli anni peggiori della economia italiana non post bellica, in un paese analfabeta, contadino e rurale; non nella settima (oggi) potenza industriale del pianeta. E questo fa riflettere, ovvero forse qualcuno ha sbagliato, non nel pensare a conservare una realtà agro-pastorale del piccolo contadino ma nel non averla saputa difendere quale peculiarità economica di un territorio nel nostro specifico il Sannio ma non solo questo. E ancor più significa che la storia ed il passato, le nostre radici culturali e della quale cultura appartiene anche l’economia stessa di tali territori che tra alti e bassi aveva funzionato per 700 anni, è stata non vista, dimenticata, non tenuta in conto, non tanto nei palazzi dei governi italiani, ma nella più altezzosa Bruxelles tra gli scranni dei burocrati della politica europea, nell’unico posto dove si doveva dimostrare di conoscere, il passato, la storia del territorio e il vissuto del territorio stesso e difenderlo a spada tratta. Però bisogna anche dire che non è tutto così drammatico in considerazione che da qualche anno, soprattutto a partire dal dopo Covid, si è iniziato a riflettere e lavorare sul recupero dei borghi, non tanto in prospettiva architettonica quanto in nuove forme organizzative ed aggregative dei servizi, le quali dove sono state realizzate anche con l’accorpamento istituzionale dei comuni ha permesso notevoli risparmi di spesa, spendibili in altre forme. In alcuni contesti ad esempio, il risparmio dettato dall’unificazione e accorpamento ha permesso di ovviare alla carenza dei servizi di trasporto creando un servizio ad hoc, con l’acquisto di monovolumi a 9 posti e collegamenti a richiesta. Progetti dedicati ad eventi culturali, l’implementazione del turismo sacro e termale a breve raggio (una peculiarità del Sannio) ha rivitalizzato quelle realtà ove si era già posto attenzione in passato. Piccole realtà quali ad esempio Faicchio, Castello Matese, Pietrelcina hanno visto anche un ritorno di emigrati i quali anche se prossimi alla quiescenza (pensione) hanno cominciato ad apprezzare quello che 15 anni fa era iniziato ad essere definita quale Slow Life accoppiata alla Slow Food, ovvero una vita lenta senza la fretta e lo stress dei grandi centri urbani. Può anche apparire contraddittorio il discorso poiché parliamo di ultracinquantenni ai quali cambia poco dover impiegare un’ora per giungere e Caserta o Benevento e circa due per Napoli con distanze che altrove impiegano tra i 30 minuti ed un’ora per l’equivalente distanza da Napoli. Però inizia ad esserci la volontà di restare dei giovani i quali nel loro essere Generazione X sfruttano al meglio la tecnologia, spesso preferendo restare in un tranquillo borgo lavorando “a distanza” in Smart Working. Oltretutto è in parte possibile studiare a distanza con studenti universitari che frequentano la metà delle lezioni dal vivo, metà on line. Ciò significa iniziare ad apprezzare la Slow Life. È anche vero che non si può pensare di fare il chirurgo a distanza, o l’insegnante a distanza, ma è anche vero che l’insieme dei tentativi di rivitalizzare i borghi e farli tornare a vivere nel numero dei residenti sembra funzionare. Avevo accennato ad alcune realtà, ma ne esistono diverse altre, Cerreto Sannita, o ancor più Guardia Sanframondi puntando all’incremento economico di specialità, ceramiche e food da una parte, vino dall’altra. Ma pensiamo ancora a Sant’Agata dei Goti con il turismo, a Roccamonfina con le castagne, a Mercogliano con nocciole e torrone. È anche vero che poi accade che il comune vicino a tali realtà sia invece in una situazione contraria di abbandono e non ritorno, l’esempio può essere Castello Matese rispetto a San Gregorio Matese dove il secondo è in costante decrescita demografica, eppure distano meno di sei chilometri tra essi. O ancora tra San Lupo e Guardia Sanframondi, o ancora Faicchio con San Lorenzello e molteplici altre realtà simili. E dunque potrebbe essere pensabile il recupero demografico dei nostri borghi, potrebbe essere realizzabile? E’ fattibile, è possibile, esempi virtuosi ne esistono e sono anche realtà interculturali e multiculturali. E se riflettiamo su ciò altro sarebbe la storia che si ripete, poiché nelle nostre terre è già accaduto, è accaduto con Federico II, con gli Aragonesi, ed al disagio socio economico del vicereame spagnolo, è susseguita la monarchia di Carlo III di Borbone. E cosa bisogna sapere per poter progettare e realizzare e portare nuova vita nei borghi delle nostre terre e non solo? Una classe politica locale culturalmente competente, che conosca le dinamiche del passato, gli eventi delle riprese socio economiche della nostra storia locale, provinciale e regionale. Non occorrono nuove e fantastiche idee, sono sufficienti gli insegnamenti della storia e l’applicazione politica di quel passato…..ma ciò necessita di politici capaci e non di rapaci.

Autore

Figlio della migrazione italiana degli anni 60 del XX° secolo, nato in Gran Bretagna e tuttora cittadino britannico a voler ricordare il mio essere nato migrante ed ancora oggi migrante (Interno). Sono laureato in Lettere (Università di Roma “La Sapienza) ad indirizzo Archeologico-Preistorico per la precisione in Etnografia Preistorica dell’Africa, un Master di primo livello in “Interculturale per il Welfare, le migrazioni e la salute” ed uno di secondo livello in “Relazioni internazionali e studi strategici”. Sono Docente a contratto di Demoetnoantropologia presso l’Università di Parma e consulente per il Ministero della Cultura in ambito Demoetnoantropologico. Mi occupo di relazioni con le comunità di diversa cultura del territorio di Parma e Reggio Emilia scrivo di analisi geopolitiche e curo una rubrica (Mondo invisibile) sul disagio sociale. Nel tempo libero da decenni mi occupo di ricerca antropologica, archeologica e storica del territorio della mia terra, della terra delle mie radici, Gioia Sannitica. Collaboro con diverse realtà divulgative e scientifiche on line (archeomedia.net- paesenews.it-Geopolitica.info-lantidiplomatico.it) creo eventi culturali, cercando sempre di dare risalto alla mia terra non intesa solo come Gioia Sannitica ma di quella Media Valle del Volturno, che fu il Regno Normanno di Rainulfo II Drengot.