Ci si riferisce a quella di Pinocchio come ad una semplice “favola” relegata alla lettura per bambini, una percezione culturale che erroneamente confina l’opera di Collodi, insieme a tanti altri casi, in una posizione “meno dignitosa” rispetto ai capolavori della “Grande Letteratura”, i “capolavori veri”, quelli che si studiano a scuola, per intenderci.
Eppure è una delle opere più conosciute e tradotte in tutto il mondo, una delle più riproposte e rielaborate in ambito cinematografico e che continua a sollecitare la fantasia e l’immaginazione delle persone. Perché? Diamoci una risposta!
“Le avventure di Pinocchio” di Carlo Lorenzini, detto Collodi, ha essenzialmente due livelli di lettura, uno narrativo e uno metaforico. Dato che la storia è oramai relativamente ben conosciuta, è proprio la chiave di lettura metaforica il “bello” di quest’opera, perché non essendo stata cristallizzata né dall’autore né dalla critica, il lettore può sbizzarrirsi a cercare tutte le simbologie e le interpretazioni del caso. Purtroppo c’è da dire che questi significati più viscerali sono molto difficili da carpire se consideriamo quanto l’immaginario collettivo del racconto sia stato influenzato da diverse rivisitazioni, in primis dal film Disney del 1940, che, nonostante la sua magnificenza, ha innegabilmente imposto a livello mondiale una specifica e persistente versione del racconto per molti versi distante dall’originale. Eppure è proprio tramite un’analisi delle differenze che possiamo notare le implicazioni simboliche della fiaba originale e dei suoi personaggi.
Cominciamo a parlare de “il grillo parlante”, uno dei personaggi più famosi della
fiaba. Egli è la “coscienza” di Pinocchio, ma piuttosto che essere presente come suo accompagnatore, nel romanzo originale ha un ruolo più marginale, dato che compare sporadicamente e ci si dimentica che sia stato Pinocchio stesso a spiaccicarlo con un martello, terribilmente infastidito dalle sue prediche. La scelta del “grillo” infatti non è casuale. Il verso del grillo può essere costante e fastidioso, proprio come lo sono i suoi giudizi alle orecchie di Pinocchio.
Un’altra figura è quella di Mangiafuoco. Egli invece è spesso il “cattivo” per eccellenza, un mostro dalla barba nera e lunga, orribile alla vista, che tratta male le sue marionette. In realtà non è esattamente così. Non solo perché Mangiafuoco si scopre essere in fondo un uomo con un cuore tutto sommato buono. Secondo un’interpretazione egli è uno che “mette alla prova”, un “tentatore buono”, un attore che “interpreta” la parte di un burbero dai metodi certamente bruschi e poco gentili, che inscena una situazione che alla fine fa scaturire il meglio del protagonista. Mangiafuoco infatti chiede di bruciare la marionetta Arlecchino (marionetta viva e animata) per cuocere il suo montone. Pinocchio caccia fuori tutto il suo altruismo, tanto da offrirsi egli stesso al supplizio. Ed è qui che Mangiafuoco cambia atteggiamento, tanto da commuoversi. Così risparmia Arlecchino, si fa dare un bacio da Pinocchio e ricompensa il burattino con delle monete d’oro da portare al suo “babbo”, che “di mestiere fa il povero”.
Un altro personaggio importante, seppur non umano, compare verso la fine del racconto. In questa fase, soprattutto nelle rivisitazioni, Pinocchio viene inghiottito da una “balena” o un da mostro marino, un vero leviatano, terribile e minaccioso, una piaga dei mari che il più delle volte va incontro alla sua morte come la fine che si merita. In realtà nel romanzo originale si tratta di un “pescecane”, dalle dimensioni immense, tanto innocente quanto la sua natura, quella di un semplice animale che inghiotte tutto quello che incontra, semplicemente perché incredibilmente grosso e che dorme beatamente con la bocca aperta perché asmatico. Dunque è già di per sé un’immagine più “umana” e pietosa, rispetto alla belva divoratrice e impetuosa che si suole rappresentare. Non c’è nessuna fatalità crudele ad aspettarlo. Perché in effetti è un’entità benevola, incredibilmente benevola. E’ il “traguardo”, la tappa necessaria alla catarsi, la fine e l’inizio, la morte e la rinascita. La pancia del pescecane infatti rappresenta il “grembo”, in cui si “rientra” per poter uscirne rinati, come nuovi. Il vero riscatto di Pinocchio e la sua sua redenzione per diventare un bambino vero (altra espressione dalle forte implicazioni allegoriche) inizia proprio da quando riesce a “fuggire” dalla sua pancia, e lo fa senza particolare intoppi. Il pesce è per l’appunto dormiente e con la bocca aperta, la via d’uscita è a portata di mano, perché non è per niente il ruolo del pescecane quello di impedire il prosieguo della storia.
Ovviamente non può mancare Pinocchio! Egli è il protagonista, ma mica uno
normale! Innanzitutto non nasce, lui è già vivo, ancor prima di avere un corpo. La sua anima è già all’interno di quel pezzo di legno informe. All’inizio del romanzo la sua voce, il suo “verbo” già risuona. E qui ci si può sbizzarrire con i rimandi al Vangelo. Collodi ha avuto il coraggio di presentarci un “antieroe” in viaggio verso il suo miglioramento. Una cosa originale e rischiosa, soprattutto per l’epoca. E l’autore non si pone limite nel porci davanti un personaggio testardamente incline all’accidia, ai vizi, alla disobbedienza, alla presunzione, alla cattiveria indotta o volontaria, ad una capacità nel cadere continuamente, per malizia o ingenuità, nel tranello. Leggiamo di questo “moccioso” quasi fino allo sfinimento, tanto che sembra essere irrecuperabile. Ma continuiamo a seguirlo, perché in fondo sappiamo che é un “neonato”, che deve crescere, un “buono” comunque perdonabile la cui purezza d’animo e ingenuità non aiutano in un mondo di imbroglioni e male intenzionati. Ed è per questo che ha bisogno di protezione, guida, sostegno e amore, di quello paziente, quello del padre Geppetto e dalla Fatina, che in un certo punto del racconto Pinocchio ha la necessità di chiamare “mamma”. E così ogni volta che promette, ogni volta che sembra prendere la retta via, siamo tutti lì a sperare, a fare il tifo per lui. Ed è per questo che quando “diventa un bambino vero” ci sentiamo appagati.
Ed ecco che compare un altro punto fondamentale della storia: l’importanza
dell’educazione ai precetti dell’onestà morale, lavorativa e sociale. Famiglia e Scuola ricoprono un ruolo importante, quasi intrecciato, simbiotico, un ruolo non tanto di “finalizzazione” al lavoro, ma di “formazione”, la formazione della “persona” in grado di comprendere il mondo e di parteciparvi, di contribuire alla sua crescita attraverso la propria arte. Collodi ha scritto una storia di crescita, attraverso le negative conseguenze della slealtà, della menzogna e le ricompense della conoscenza, dell’aiuto e della verità, delineando un sistema di valori che si presenta come soluzione alle dinamiche di una società, come quella attuale, che, anche nel pieno di crisi o mutamenti ideologici, culturali e affettivi, non può non riconoscerne una portata universale, degna di essere tenuta in continua considerazione e perseguita.
Insomma, di Pinocchio si potrebbe continuare a parlarne fino alla fine dei tempi. Un racconto dai toni disturbanti e oscuri. Un racconto dunque che non ha paura di mostrare bambini che subiscono metamorfosi fisiche, imbroglioni, assassini, riferimenti alla morte, disgrazie, atti di violenza, tentazioni. E nonostante ciò, questi toni cupi vanno ad intrecciarsi, quasi ad amalgamarsi con le atmosfere allucinate, magiche e meravigliose di un mondo incantato dove agiscono entità benevoli, tentatori “buoni”, propositi e affetti gentili, sinceri, come quelli dell’amore, del perdono e del riscatto. Un racconto in cui si riconoscono i bambini, ma anche soprattutto i genitori, come quando il povero e infreddolito Geppetto si vende la casacca per comprare a Pinocchio l’abbecedario, risolvendo tutto con un semplice “mi faceva caldo”.