• 21 Novembre 2024
Politica

Nella tormentata scena politica israeliana le forze armate rappresentano da sempre un punto di riferimento forte e un fattore stabilizzante. Desta perciò preoccupazione nell’opposizione politica al sesto governo di Benjamin Netanyahu, nei segmenti laici della società e negli alti vertici militari, la crescita esponenziale all’interno delle forze armate israeliane del numero di simpatizzanti dei partiti sionisti ultra religiosi. Secondo i dati elettorali alle legislative dello scorso novembre oltre un quarto dei militari in servizio hanno votato per le formazioni nazional religiose di Itmar ben Gvir, Bezalel Smotrich e Yoav Moaz.

Un risultato che conferma una tendenza in atto da oltre tre decenni. Gli ortodossi, un tempo scettici verso la carriera militare (considerata a lungo terreno quasi esclusivo dell’élite laica, fondatrice nel 1948 dello Stato d’Israele), negli anni hanno rivalutato l’Israel Defence Force iniziando una inedita penetrazione nell’establishment militare. Per perseguire il progetto la comunità sionista religiosa ha creato negli anni apposite strutture come l’Accademia pre militare di Elì, fondata nel 1988 nei territori occupati dal rabbino Eliezer Sadan, ad oggi la principale istituzione scolastica di questo tipo e una fucina di spiriti guerrieri.

Dalle aule di Elì sono usciti il generale Avi Bluth, attualmente capo della divisione Samaria, il continente dislocato in Cisgiordania, i comandanti della brigata Givati, impegnata su Gaza, della brigata Efrain, schierata al Nord, e i consiglieri di Smotrich, nuovo ministro per i territori occupati. La punta dell’iceberg.

Come illustra uno studio interno dell’Idf ripreso dal quotidiano francese “Le Monde”, un quarto del corpo ufficiali si richiama apertamente ai valori dell’ortodossia e un terzo abbondante degli effettivi delle unità di prima linea e dei corpi scelti (commandos, carristi e paracadutisti) sono provenienti o vicini al movimento nazional-religioso. Un’impennata clamorosa considerando che, nelle loro diverse gradazioni, i fondamentalisti rappresentano al massimo il 15 per cento della composita società israeliana.

Di certo l’aumentata influenza dei sionisti religiosi ha rafforzato lo spirito combattivo delle truppe e a farne le spese sono stati, come è noto, i palestinesi. Per i devoti di Eliezer Sadan il servizio militare non solo è un obbligo civile ma anche e soprattutto un perfetto “mitzah (comandamento ebraico) della Torah. Dunque per i nemici alcuna comprensione o pietà e massima impunità per i soldati che aprono il fuoco, magari su civili disarmati, in situazioni considerate ostili. Al tempo stesso, si chiede insistentemente una rigorosa attenzione ai dettami alimentari rabbinici nelle mense e una drastica riduzione del ruolo delle donne e del reclutamento di drusi e arabi.

Un mutamento che il nuovo esecutivo di Bibi Netanyahu vede con favore: ogni anno lo Stato versa annualmente all’accademia di Sadan, già insignito nel 2016 dalla più alta onorificenza israeliana, 3,5 milioni di euro, coprendo così il 40 per cento delle spese, e sostiene generosamente altre 59 strutture similari di cui oltre metà gestite dai sionisti religiosi. Meno entusiasti, come sopra accennato, i vertici (assieme ai veterani delle tante guerre del passato) che a più riprese si sono dichiarati pubblicamente critici verso questa mescolanza di nazionalismo e religione all’interno del complesso castrense. Nel 2016 l’allora capo di stato maggiore Gadi Eizenkot inviò ai suoi ufficiali una lettera aperta in cui ricordava che: “L’Ifd è l’esercito del popolo e comprende un ampio spettro della società israeliana; è necessario mantenere un esercito di un paese democratico promuovendo tutto quanto rafforza l’unità dei suoi soldati”.

Parole chiare a cui non sembrano però essere seguiti fatti. Anzi. Pochi giorni fa il sociologo Yagil Levy, studioso molto attento ai mutamenti, ha descritto un esercito attraversato da “una rivoluzione religiosa promossa proprio dal rabbino Sadam e dalla sua accademia”. 

Nel segno della “nazione armata”, servire (e combattere) per la maggioranza dei giovani israeliani rimane un obbligo gravoso ma sentito, per altri loro coetanei è invece una missione per conto della Torah e dei suoi esegeti.

Autore

Laureato in Storia, giornalista e saggista, Marco Valle è, come ogni buon triestino, un ricercatore inquieto, un viaggiatore curioso. Collaboratore de Il Giornale, negli anni è stato capo redattore di Qui Touring e ha diretto riviste di viaggi, moda e trasporti. Già portavoce del ministro della Difesa, è consulente della Commissione Italiana di Storia Militare. Ha pubblicato 150 anni d’Unità Nazionale (Touring Club, 2011), Il Milanese e l’Unità d’Italia (Touring Club, 2012), Confini e Conflitti (Eclettica, 2014), Padova (Touring Club, 2016), Le Pen, la donna che spaventa l’Europa (Il Giornale, Fuori dal Coro, 2017), Suez, il Canale, l’Egitto e l’Italia (Historica, 2018), Il futuro dell’Africa è in Africa (Il Giornale, Fuori dal Coro, 2021), Patria senza mare, una storia dell’Italia marittima (Signs Books, 2022).