L’obiettivo era sicuramente ambizioso e anche piuttosto originale: utilizzare le gesta, sempre disprezzate dalla cultura di sinistra, di un eroe della “guerra fascista” per costruire un apologo buonista sull’accoglienza, la fratellanza e la solidarietà. Con evidenti intenti propagandistici a favore dei “salvataggi” di migranti che in realtà in mare ci finiscono più che come naufraghi come vittime e risorse di un infame traffico di esseri umani che spesso non finisce con l’approdo sulle nostre coste. In pratica, e qui sta la singolarità della trovata, combattere le posizioni della destra rivoltandole contro i suoi miti e le sue storie.
L’idea era venuta a Sandro Veronesi – scrittore di sinistra-sinistra, amatissimo dai salotti engagé e dal mondo politicamente corretto, sfegatato immigrazionista spesso con la bava alla bocca – e a Edoardo De Angelis, talentuoso e ben allineato regista emergente.
Il duo riscopre, chissà come, l’eroe di guerra Salvatore Todaro, pluridecorato ufficiale della Regia Marina caduto in azione nel 1942, e la sua impresa più celebre e discussa: il salvataggio dei naufraghi della nave belga Kabalo, da lui stesso affondata a cannonate il 15 ottobre 1940 nell’Oceano Atlantico a circa 600 miglia dalle Isole Azzorre.
Todaro, al comando del sommergibile oceanico Cappellini, non esitò a mettere a rischio la nave e l’equipaggio per salvare 26 marinai belgi, dapprima trainati poi direttamente imbarcati sul sommergibile che dopo quattro giorni di pericolosa navigazione li sbarcò sani a salvi sull’isola di Santa Maria.
Da questa vicenda, ben conosciuta da chi bazzica la storia militare ma praticamente ignota al grande pubblico, il duo Veronesi-De Angelis ha tratto il film “Comandante”, presentato a Venezia e uscito in questi giorni nelle sale, la cui sceneggiatura è anche diventata un romanzo che ha preceduto il film. Come ha spiegato Veronesi quella di Todaro “è una storia limpida e punta su una cosa che è stata messa in discussione in questi ultimi anni dai vari governi che si sono succeduti e che hanno confuso tutti il soccorso con l’accoglienza: il soccorso è una cosa, un obbligo in mare. La nave più vicina deve deviare dalla rotta, salvare i naufraghi, portarli a bordo e sbarcarli nel posto sicuro più vicino. Quella regola vale sempre”, aggiungendo che “la Regia Marina ha formato tanti uomini come Todaro: se vedi un uomo in mare e lo salvi, forse metti il tuo equipaggio a rischio ma poi gli offri anche l’opportunità di una nuova convivenza, tra lingue, culture e dialetti diversi”.
Se non è questa la sede per confutare la artificiale assimilazione tra naufraghi e vittime del traffico di esseri umani, possiamo però chiederci se sia possibile trasformare Salvatore Todaro in una specie di testimonial buonista del salvataggio, dell’accoglienza e della società multietnica.
Il capitano di Corvetta Salvatore Todaro in realtà è piuttosto lontano da certi stereotipi e la sua figura mal si adatta a certe etichette. Personalità sfaccettata e complessa, se non era un fervente fascista era sicuramente un militare nazionalista, un uomo d’armi di forti principi deciso a combattere la guerra fino in fondo ma a modo suo, seguendo un personale codice d’onore come un antico Samurai o un cavaliere medievale. Il comandante Borghese, suo amico e commilitone alla Decima Flottiglia – dove Todaro si era fatto trasferire nel novembre 1941 forse convinto di trovarvi un modo di combattere più adatto al suo temperamento – lo ricordava così: “Todaro era il mistico di un determinato tipo di vita, che cercava più che la vittoria, la bella morte: non importa, ci diceva, affondare la nave nemica. Una nave viene ricostruita. Quello che importa è dimostrare al nemico che ci sono degli italiani capaci di morire gettandosi con un carico di esplosivo contro le fiancate del naviglio avversario. Per noi la morte in combattimento è una cosa bella, profumata”.
È da questi principi estremi, da un rigoroso codice d’onore personale che nasce la decisione di salvare da morte certa, mettendo a rischio la propria, nemici che a parti invertite non avrebbero fatto lo stesso. Non certo da fumose e astratte elucubrazioni politicamente corrette, del tutto estranee alla cultura del tempo ed al percorso ideale e di vita di un uomo come Todaro.
La possibile contraddizione tra la realtà storica e le intenzioni degli autori non era sfuggita al regista, Edoardo De Angelis, che dopo avere azzardato un inverosimile “per Todaro essere italiani significa portare 2000 anni di storia di civiltà sulle spalle, accogliere e non respingere, arricchirsi della diversità” si è preoccupato di precisare, senza lesinare su ciarpame retorico ed ignoranza della storia, che “per non incorrere in equivoci calunniosi [l’accusa di omaggiare un “eroe fascista” ndr] che al tempo del suo passaggio la X Mas non è ancora diventata la vergogna e il disonore dell’esercito italiano, cosa che avviene dopo l’8 settembre 1943 quando il suo fondatore, Junio Valerio Borghese, decide di farne una teppa di aguzzini al servizio dei nazisti e della Gestapo, responsabile di rastrellamenti e di torture nei confronti di ebrei italiani e di partigiani”.
Tali essendo le premesse e le intenzioni che dire del risultato?
Diciamo subito che “Comandante” è un grande film, in particolare un grande film di guerra, ben costruito, ben girato e ancor meglio interpretato.
Una narrazione emozionante e profonda che si snoda su diversi piani sapientemente intrecciati dal regista che ci presenta da una parte il racconto dell’impresa del Cappellini e del suo equipaggio, dall’altra il ritratto dell’uomo Salvatore Todaro in tutte le sue sfaccettature: militare rigoroso e carismatico uomo di mare ma anche appassionato di occultismo ed esoterismo, di filosofie orientali e di yoga, attratto dalla mitologia greca, studioso della lingua farsi. Un uomo coraggioso colto anche nella umanissima lotta contro il dolore fisico conseguente ad un incidente di volo che gli aveva spezzato la spina dorsale costringendolo ad indossare un pesante busto rigido ed a confrontarsi con la morfina, l’unico farmaco allora disponibile per alleviare dolori del genere.
Un ritratto a tutto tondo costruito consultando i suoi diari, le lettere alla moglie Gina e altre carte private che la famiglia ha messo a disposizione degli autori reso perfettamente da Pierfrancesco Favino con una eccellente interpretazione.
Il budget (15 milioni in totale) ha permesso di riprodurre fedelmente ed in ogni dettaglio, con la collaborazione della Marina Militare, lo scafo del Cappellini allestendo a Cinecittà un tubo d’acciaio lungo 73 metri all’interno del quale si svolge gran arte dell’azione con una rappresentazione estremamente realistica della vita dell’equipaggio di un sommergibile oceanico in missione di guerra. Anche le scene di combattimento sono ben girate e ben costruite, con effetti speciali di grande qualità e un montaggio sobrio e molto funzionale.
I molti pregi della pellicola superano ampiamente incongruenze (la figlia di Todaro Graziella Marina nata nel 1942 non poteva essere stata concepita nel 1940) e forzature che pure non mancano, a volte funzionali alla narrazione, come l’episodio della morte della MOVM Danilo Stiepovich avvenuto in realtà il 14 gennaio 1941 in un’altra missione (l’affondamento del piroscafo armato inglese Eumaeus), a volte no, come il grottesco episodio del tentativo di sabotaggio da parte di due naufraghi che spinti dall’odio per i “fascisti” cercano di danneggiare il sommergibile mettendo illogicamente in pericolo anche sé stessi. Una scena abbastanza inverosimile il cui scopo è forse quello di permettere a Favino-Todaro di rispondere alla fatidica domanda: “Fascista? Io sono un uomo di mare”.
Anche la posticcia retorica buonista, inevitabile viste le premesse, risulta tutto sommato contenuta e alla fine non disturba più di tanto: qualche incongrua frase contemporanea su porti sicuri e leggi del mare, qualche maledizione a chi non si adegua (bersaglio ben identificabile), la scena simbolica delle patate fritte e poco altro.
Decisamente inutile e del tutto evitabile, invece, la macchietta del cuoco napoletano col mandolino che canta ‘O surdato ‘nnammurato, ennesima riproposizione di uno dei più stucchevoli e scontati stereotipi italioti, una banalità di pessimo gusto del tutto fuori luogo in un’opera di questo livello.
Se, dunque, dal punto di vista cinematografico si può dire senz’altro che il film sia pienamente riuscito, resta da capire cosa ne sia del “messaggio”, come si diceva una volta, affidatogli dagli autori, ovvero se veramente il film possa convincerci che, per usare le parole (banalotte) di Pierfrancesco Favino, “italianità è anche salvare gli uomini in mare”, con tutto quello che ne consegue anche sul piano politico.
In realtà “Comandante” si rivela un vero film patriottico nel senso migliore del termine: ci mostra vicende e personaggi dei quali essere orgogliosi in quanto Italiani, soprattutto in tempi di mediocrità e squallore come questi. Ha il grande merito di riportare alla luce la figura e il valore di Salvatore Todaro, uno dei tanti eroi della cosiddetta “guerra fascista”, misconosciuti e ingiustamente ignorati dall’Italia “democratica” da sempre influenzata da convergenti e deleteri pregiudizi ideologici.
Da qui a farne un manifesto della strumentale e ipocrita retorica dei “salvataggi in mare”, però, ce ne corre. Difficilmente “Comandante” convincerà chi non è già convinto che il vero problema sia occuparsi dei “salvataggi” in mezzo al mare (ovvero traghettare e ricevere indiscriminatamente) e non contrastare il criminale traffico di esseri umani che li genera e magari, allargando l’orizzonte, il contrasto delle cause a monte.L’eterogenesi dei fini non era sfuggita, e non a caso, al duro e puro Manifesto. Non nascondendo l’irritazione “per un film che ha per protagonista un militare fascista con la passione per la guerra, e dunque con i suoi fantasmi affatto strambi” nelle cronache da Venezia Il Manifesto aveva richiamato all’ordine ricordando il punto di vista della vera sinistra: “la questione dell’italianità, di un’appartenenza che evidentemente deve essere avvertita come molto urgente, se è vero che in molti si sono sentiti in dovere di rivendicare e applaudire il patriottismo. Nuovamente, addio Angelo Del Boca, gli italiani sono quelli che salvano le persone, persino i nemici…per poi attaccarli alla prossima occasione. Forse è stato tutto un malinteso. Nella distrazione generale, si è scambiata la guerra per una sana partita di rugby. Ci si mena, ci si affronta senza risparmiarsi e poi, alla fine, ci si stringe la mano. Sarà andata così anche nella Seconda Guerra Mondiale, quella degli italiani veri con le leggi razziali vere.”