Eccomi qui, cari lettori, nell’articolo dello scorso mese ci siamo lasciati definendo che il corpo è un mezzo di comunicazione con sé stessi, con gli altri e con l’ambiente; che con il corpo costruiamo l’apprendimento, esperiamo emozioni, segni, relazioni; che grazie al corpo, alle azioni e ai movimenti costruiamo una identità. Quindi possiamo considerare il nostro corpo un amico, un alleato. Ma proseguendo la lettura potete costatare che non sempre è così. Nel rapporto con il nostro corpo condividiamo contemporaneamente aspetti biologici, fisiologici, psicologici e sociali. Il rapporto nasce tra i modelli di cultura del corpo rappresentati e condivisi socialmente, il corpo e gli stili di vita. Con di stili di vita intendo dire rappresentazioni sociali di riferimento, assumendoli come nucleo dell’identità corporea e facilitatori per il riconoscimento sociale. Accettiamo gli stili di vita che ci attirano, che ci sono più vicini al nostro modo di sentire o che ci seducono. Oscilliamo tra il bisogno di differenziazione da un lato e di uniformità dall’altro. Importante per noi è vivere l’immagine corporea come propria ma anche riconosciuta e accettata dagli altri. Dobbiamo essere soggetti attivi nel definire i nostri stili di vita che corrispondono alla nostra identità corporea; e non soggetti che recepiscono passivamente dei contenuti rappresentazionali standardizzati ed uniformanti. Quest’ultimo stile non riflessivo è definito stile di vita medicalizzato. La nozione richiama un corpo biologico. Medicalizzare significa intervenire, modificare, trasformare il corpo e controllarlo attraverso pratiche di modellamento. La medicalizzazione implica la deresponsabilizzazione del soggetto rispetto alla cura; la perdita dell’intersoggettività, sociale e relazionale della corporeità; e infine la perdita comunicativa del corpo, con delega al linguaggio tecnico, farmacologico e scientifico. Si identifica il corpo come perfetto, privo di incrinature, statico, dove viene negata la fragilità umana. Il benessere che ne scaturisce viene dalla delega a sostanze dopanti, chirurgia estetica, farmaci. La ricerca di perfezione estetica si avvale di interventi manipolatori (chirurgia estetica, trattamenti estetici, e altro ancora). Gli stili di vita oggi diffusi, tendono a porsi come sostituti del linguaggio parlato, ricreando un dualismo tra dimensione verbale e non verbale. L’idea è quella di un linguaggio totalmente corporeo, un corpo che parla per noi, che comunica senza un coinvolgimento personale, una comunicazione che esprime un’appartenenza e una socialità più mostrate che vissute. Le persone con disturbo alimentare, che si rivolgono al corpo e contro il corpo, lo attaccano, lo mutilano, lo affamano, lo riempiono, lo svuotano, lo purgano in modo compulsivo e rabbioso, hanno una visione del loro corpo utilitaristica: con il corpo esprimono conflitto e scarica pulsionale. Tutte le condotte contro il corpo sono agite per liberare un dolore non contenibile e inenarrabile, attraverso il corpo fanno defluire e decongestionare una tensione emotiva non sopportabile. E’ un dolore vissuto tra sé e sé, non comunicato e condiviso con altri e, con il mondo. La persona si trova imprigionata o come dice Recalcati (1998), il corpo della persona con disturbi alimentari è un “corpo ostaggio”. La persona fa diventare il corpo una cosa altra da sé e poi lo cattura e lo strumentalizza. Il corpo è a portata di mano, e la persona lo utilizza per la fuoriuscita del dolore. Le persone con disturbi alimentari, ricorrono molto spesso a gesti autolesivi come tagli, morsi, pugni autoinflitti, perché hanno bisogno di sentire il corpo dolorante, sentire delle sensazioni. La scissione mente – corpo non riesce sempre perfettamente e quindi alla persona non dispiace ricevere sensazioni forti. Il corpo anche se attaccato, continua ad inviare segnali come crampi, bruciori, vertigini. Il corpo in ostaggio, non obbedisce al suo carceriere. La scissione mente – corpo riuscita, priva la persona di spontaneità e naturalezza, la persona diventa disarmonica e rigida nelle interazioni, vive con angoscia le situazioni relazionali, pur avendone bisogno e ricercandole. Il corpo per chi ha un disturbo alimentare diventa uno strumento di ricatto non solo per sé stessi, ma anche per punire, richiamare attenzione, terrorizzare l’altro. Si ricerca un benessere fittizio, e non un benessere che fa vivere ed abitare il proprio corpo con pienezza completezza, senso di equilibrio e di capacità critica-riflessivo rispetto a sé in quanto corpo. Il corpo è un oggetto amato ma anche temuto. Soprattutto in adolescenza, è sede di conflitti impegnativi: è maturo per l’intimità sessuale, per la procreazione, il corpo comunica il proprio stato di giovane adulto con responsabilità e nuovi diritti, si deve adeguare a criteri sociali e mostrare l’appartenenza ad un gruppo. Un benessere fittizio, e non un benessere che fa vivere ed abitare il proprio corpo con pienezza, completezza, senso di equilibrio e di capacità critica-riflessivo rispetto a sé in quanto corpo.