• 8 Settembre 2024
La mente, il corpo

Il termine buonismo, nato nel linguaggio giornalistico italiano negli anni ’90, inizialmente indicava un atteggiamento di apertura e tolleranza nei confronti dell’avversario politico. Questo concetto era utilizzato per descrivere una certa disposizione al dialogo e alla comprensione reciproca tra le diverse fazioni politiche, in un’epoca caratterizzata da forti tensioni e cambiamenti.

Nel corso degli anni, il buonismo è stato associato a figure politiche che si distinguevano per la loro capacità di andare oltre la mera contrapposizione ideologica, cercando punti di incontro e soluzioni condivise. Questo approccio era visto come un valore aggiunto in un panorama politico spesso segnato da divisioni e conflitti.

Tuttavia, il significato del termine ha subito un’evoluzione: da simbolo di una politica inclusiva e dialogante, il buonismo è stato progressivamente reinterpretato come un’ostentazione di falsa bontà, soprattutto nei confronti dei migranti e delle minoranze etniche. In questo senso, il buonismo è diventato un’accusa rivolta a chi, secondo alcuni, esibisce una moralità superficiale e non autentica, spesso in contrasto con gli interessi nazionali o con la gestione pratica delle questioni sociali.

Proviamo quindi a esplorare questa trasformazione semantica e le sue implicazioni sul dibattito politico e sociale italiano, ponendo le basi per un’analisi più approfondita del fenomeno nel contesto attuale.

Durante la Prima Repubblica, l’Italia ha visto l’ascesa di figure politiche di spicco che hanno plasmato il paesaggio politico del paese. Tra questi, personaggi come Alcide De Gasperi, primo presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana, e Sandro Pertini, noto per la sua integrità e il suo impegno civile. Questi leader hanno contribuito a definire l’identità politica dell’Italia nel dopoguerra e durante gli anni del miracolo economico.

Il denaro, in questo contesto, ha giocato un ruolo ambivalente. Da un lato, ha permesso la ricostruzione del paese e il suo sviluppo economico, ma dall’altro ha aperto la porta a pratiche di corruzione e clientelismo. Il cosiddetto “patto della staffetta” tra Ciriaco De Mita e Bettino Craxi è un esempio di come le posizioni di potere potessero essere negoziate e scambiate, spesso a discapito dell’etica e della trasparenza.

La Prima Repubblica è stata caratterizzata da un sistema di potere in cui il denaro e le relazioni personali erano spesso utilizzati per mantenere l’equilibrio politico e per assicurare la governabilità. Tuttavia, questa gestione delle risorse pubbliche e private ha portato a un deterioramento del costume politico, culminando negli scandali di Tangentopoli che hanno segnato la fine di questo periodo storico.

Comprendere il ruolo del denaro durante la Prima Repubblica significa comprendere come esso sia stato sia un mezzo per il progresso economico sia una fonte di compromessi morali e politici, che alla fine hanno minato la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nei loro rappresentanti.

Durante la Guerra Fredda, l’Italia ha svolto un ruolo cruciale nel mantenere un equilibrio tra le potenze occidentali e il blocco sovietico. Il buonismo, inteso come un approccio diplomatico e conciliatorio, ha permesso di navigare attraverso momenti di tensione internazionale, evitando spesso l’escalation in conflitti aperti.

Un esempio concreto di questo approccio è stato il viaggio di Alcide De Gasperi negli Stati Uniti nel gennaio 1947, che ha rafforzato i legami tra Italia e USA e ha portato a un prestito significativo per il paese, integrato successivamente dai fondi del Piano Marshall. Questo non solo ha aiutato la crescita economica dell’Italia ma ha anche contribuito a posizionare il paese all’interno dell’orbita atlantica durante un periodo di crescente tensione con l’Unione Sovietica.

Tuttavia, il buonismo non è sempre riuscito a prevenire eventi tragici. Un esempio è il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nel 1978. Moro, che aveva promosso il “compromesso storico” per aprire un dialogo tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, fu visto dalle Brigate Rosse come il simbolo di un accordo che avrebbe portato il PCI a un assoggettamento allo Stato Democratico. Il loro atto estremo era un tentativo di dimostrare il loro dissenso nei confronti di quello che percepivano come un tradimento dei principi rivoluzionari e un attacco al cuore dello Stato.

Questi eventi dimostrano la complessità del periodo della Guerra Fredda in Italia, dove il buonismo ha avuto un ruolo importante nella diplomazia e nella politica interna, probabilmente anche grazie all’influenza di Henry Kissinger, ma non è stato in grado però di prevenire tutte le crisi, specialmente quelle legate al terrorismo interno.

Il “compromesso storico” fu un tentativo di collaborazione politica tra la Democrazia Cristiana (DC) e il Partito Comunista Italiano (PCI) negli anni ’70, con l’obiettivo di stabilizzare l’Italia in un periodo di forte tensione politica e sociale. Aldo Moro, uno dei principali sostenitori di questa strategia, cercò di creare un governo di unità nazionale che includesse entrambi i partiti.

Tuttavia, il compromesso non riuscì a realizzarsi pienamente. Il PCI non entrò mai a far parte del governo in una grande coalizione, e il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nel 1978 segnarono simbolicamente e tragicamente il fallimento di questa politica di apertura.

Questo evento può essere interpretato come la dimostrazione che il buonismo, inteso come la ricerca di un accordo e di un dialogo tra forze politiche opposte, non è sempre sufficiente a garantire stabilità e sicurezza, soprattutto quando si affrontano forze estremiste che rifiutano il dialogo e ricorrono alla violenza. Il fallimento del compromesso storico suggerisce che, mentre la ricerca di consenso e la cooperazione sono importanti, possono non essere strategie efficaci di fronte a minacce che richiedono risposte più decise e meno concilianti.

La storia del compromesso storico e il tragico destino di Aldo Moro evidenziano i limiti del buonismo come strategia politica in contesti di profonda divisione ideologica e di tensione sociale. Il buonismo degli anni ’90 infatti può essere visto come un’evoluzione del compromesso storico iniziato da Aldo Moro. Questa evoluzione riflette il tentativo della corrente politica cristiana di influenzare la neo-repubblica laica italiana, cercando di imporre i propri valori in un contesto che si stava progressivamente secolarizzando.

Il compromesso storico, proposto da Moro, mirava a un’intesa tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, cercando di superare le divisioni ideologiche in nome di un bene comune nazionale. Tuttavia, con il fallimento di questo progetto, emerse la necessità di una nuova forma di mediazione politica che potesse rispondere alle esigenze di un’Italia che cambiava.

Il buonismo degli anni ’90, quindi, può essere interpretato come un tentativo di rinnovare quel dialogo interrotto, adattandolo alle nuove realtà sociali e politiche. In questo senso, il buonismo diventa l’espressione di una politica che, pur mantenendo radici cristiane, cerca di presentarsi come inclusiva e aperta al dialogo in un contesto pluralistico e multiculturale.

In sintesi, il buonismo e il compromesso storico possono essere visti come due momenti di un percorso politico che ha cercato di conciliare i valori cristiani con le esigenze di una società laica, in un continuo sforzo di adattamento e mediazione tra diverse visioni del mondo.

In quest’ottica, la fine della Prima Repubblica italiana segna un periodo di profonda trasformazione politica e sociale. Questa fase storica, che si estende dal 1948 al 1994, è stata caratterizzata da una serie di scandali che hanno progressivamente eroso la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.

Il culmine di questo processo di deterioramento etico e politico è stato rappresentato appunto dallo scandalo di Tangentopoli, scoppiato nel 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, allora presidente del Pio Albergo Trivulzio. Questo evento ha dato il via a un’indagine più ampia, nota come Mani Pulite, che ha rivelato un sistema di corruzione diffuso che coinvolgeva politici e imprenditori, e che ha portato alla caduta di numerosi esponenti di spicco della politica italiana.

Le pratiche illecite, come le tangenti, erano diventate una sorta di “manuale Cencelli” per le tangenti, stabilendo percentuali spettanti ai vari partiti e influenzando così la distribuzione di incarichi e appalti pubblici. Questo sistema di corruzione non solo ha minato la legittimità del governo, ma ha anche contribuito a un senso di cinismo e disillusione tra i cittadini, che hanno visto nelle loro istituzioni non più garanti del bene comune, ma piuttosto strumenti per l’arricchimento personale e il mantenimento del potere.

La fine della Prima Repubblica è stata quindi non solo il risultato di scandali specifici, ma anche l’espressione di un malcostume radicato e di una crisi di valori che ha richiesto una risposta radicale e una riforma del sistema politico italiano.

È così che il termine buonismo, che una volta incarnava un ideale di tolleranza e apertura politica, ha subito una trasformazione significativa nel corso degli anni. Originariamente, come abbiamo visto, il buonismo era associato a un atteggiamento positivo, che promuoveva il dialogo e la comprensione tra avversari politici. Tuttavia, con il passare del tempo, il termine ha assunto una connotazione negativa, diventando sinonimo di un’ostentazione di falsa bontà.

Questa trasformazione semantica ha visto il buonismo diventare un’accusa di ipocrisia e di moralità superficiale, in particolare nei confronti dei migranti, delle minoranze etniche e talvolta anche di chi delinque. Il termine è stato utilizzato per criticare coloro che, secondo alcuni, esibiscono una bontà non autentica, spesso percepita come un modo per evitare di affrontare le problematiche sociali in maniera concreta e diretta, a volte perfino promossa da ideali di perdono e redenzione cristiani.

Inoltre, il buonismo è stato interpretato come un veicolo per la promozione di un’agenda politica che, sotto la maschera della benevolenza, nasconde interessi particolari o l’incapacità di prendere decisioni difficili. Questo slittamento semantico riflette un cambiamento più ampio nel discorso pubblico, dove la complessità delle questioni sociali e politiche richiede un approccio più sfumato e meno incline a soluzioni semplicistiche.

L’evoluzione del buonismo da tolleranza a falsa bontà evidenzia la necessità di un dibattito più maturo e responsabile sulle politiche sociali e sull’accoglienza, che vada oltre le etichette e si concentri sulle azioni concrete e sui loro impatti a lungo termine.

Oggigiorno infatti la gestione dei flussi migratori è una delle sfide più complesse per l’Europa contemporanea. Mentre l’Unione Europea ha adottato diverse normative “buoniste” per la gestione dei flussi migratori legali, il trattamento delle domande di asilo e il rimpatrio dei migranti illegali, la Danimarca si è distinta per un approccio notevolmente restrittivo.

Dal 2019, il partito Socialdemocratico danese ha imposto una politica di immigrazione significativamente più rigida, ponendo un tetto agli “immigrati non occidentali”, espellendo i migranti illegali e richiedendo agli immigrati di lavorare 37 ore alla settimana. Queste misure hanno reso la Danimarca un caso a parte in Europa, dove la tendenza prevalente “buonista” è stata quella di una maggiore apertura e accoglienza, in linea con i valori di solidarietà e tolleranza che tradizionalmente caratterizzano il buonismo europeo.

La Danimarca ha anche affrontato critiche internazionali per alcune delle sue politiche, come la decisione di dichiarare “sicura” l’area attorno a Damasco per spingere i siriani a fare ritorno nel loro paese d’origine, una mossa che è stata ampiamente criticata dalle associazioni per i diritti umani. Nonostante ciò, il governo danese ha mantenuto la sua linea, sostenendo che tali politiche sono necessarie per preservare la cultura e l’integrità sociale del paese.

L’Unione Europea continua a cercare un equilibrio tra la necessità di gestire i flussi migratori e il mantenimento dei propri valori fondamentali, la Danimarca ha scelto una strada diversa, dimostrando che esistono alternative al modello di buonismo prevalente. Questo approccio danese potrebbe offrire spunti di riflessione su come affrontare le sfide poste dall’immigrazione, pur rimanendo un caso isolato nell’attuale panorama europeo.

Nel contesto e dibattito pubblico italiano, il buonismo è spesso messo in relazione con la gestione non ottimale delle risorse pubbliche. Questa critica si basa sull’idea che un eccesso di buonismo possa portare a decisioni politiche e amministrative che privilegiano l’immagine di benevolenza cristiana e accoglienza a scapito dell’efficienza e della sostenibilità.

Un esempio di questa dinamica può essere osservato proprio nelle politiche di accoglienza dei migranti. Alcuni sostengono che, nel tentativo di apparire moralmente corretti e aperti, i governi possano trascurare l’analisi costi-benefici e la pianificazione a lungo termine, portando a una gestione delle risorse che non tiene conto dell’impatto economico e sociale.

Inoltre, il buonismo attuale viene criticato per la sua tendenza a ignorare le questioni di responsabilità e trasparenza. La riforma della Pubblica Amministrazione italiana, ad esempio, mira a superare i limiti della burocrazia e a mettere il cittadino al centro delle politiche pubbliche, ma il buonismo può talvolta ostacolare questi obiettivi, favorendo pratiche clientelari e non meritocratiche.

La gestione delle risorse pubbliche richiede un equilibrio tra la necessità di rispondere alle esigenze sociali e l’obbligo di garantire la sostenibilità finanziaria. Le critiche al buonismo sottolineano l’importanza di un approccio più pragmatico e meno ideologico, che consideri gli effetti a lungo termine delle decisioni politiche e amministrative.

In conclusione, mentre il buonismo può essere motivato da intenzioni positive, è fondamentale che la gestione delle risorse pubbliche sia guidata da principi di efficienza, equità e responsabilità, per assicurare il benessere collettivo e la stabilità economica del paese.

Autore

Rinaldo Pilla è un traduttore e libero professionista nato a Torino, ma originario del Sannio e attualmente risiede a Fermo, nelle Marche. Ha frequentato la Scuola Militare Nunziatella di Napoli per poi conseguire una laurea presso la Nottingham Trent University e successivamente un master in sviluppo e apprendimento umano dopo il suo rimpatrio dagli Stati Uniti. È un autore molto prolifico, che vanta una vasta e approfondita produzione letteraria sul tema dell’antichità, con particolare attenzione al periodo del I secolo d.C. e alla storia e alla cultura dei Sanniti, un popolo italico che si oppose e si alleò con Roma. Tra le sue opere, si possono citare romanzi storici, saggi, racconti e poesie, che mostrano una grande passione e una grande competenza per il mondo antico, e che offrono al lettore una visione originale e coinvolgente di quei tempi e di quei personaggi. Questo autore è considerato uno dei maggiori esperti e divulgatori dell’antichità, e in particolare del Sannio, una regione storica che ha conservato molte testimonianze e tradizioni della sua antica civiltà.