Salendo e scendendo per le contrade meridionali, nella gente incontrata ho sempre visto me stesso. Sicché mi si è formata, da tempo immemorabile, l’idea che il Mezzogiorno è il mio specchio nel quale si riflette la mia elementarità, svestito dalle convenzioni necessarie che mi coprono altrove. Sono praticamente nudo nell’attraversamento delle regioni dove ascolto la mia lingua, ne riconoscono le abitudini, il significato di riti e superstizioni, i profumi tra i quali sono cresciuto, l’abbandono, la gioia, la rassegnazione ed il dolore vissuti religiosamente. E quel senso di fatalità che non spiega nulla, ma rasserena mettendo nelle mani di Dio ogni accadimento, lo ritrovo ogni qualvolta m’immergo nella mia “meridionalità” come in un mare salvifico e rigenerante.
È insomma un attraversamento continuo dell’anima nel regno di uno spirito che mi si palesa gaio come il sorriso dei bambini di strada che giocano con poco o con niente, proprio come facevo io alla loro età, ma anche venato di incrinature come le pieghe amare dei vecchi di questa terra dopo una giornata di lavoro nei campi, nelle piccole botteghe artigiane, o soltanto osservatori disincantati dello spettacolo della vita che fluisce davanti a loro seduti ai bordi di strade una volta polverose ed ora indecentemente asfaltate nella bella stagione, mentre d’inverno radunati davanti al camino ricordano anche a chi non ha interesse a ricordare un mondo andato nelle forme, ma che rinviene nella sostanza quando le lacrime scendono o l’aspettativa di brandelli di serenità si fa concreta. L’arrivo di un figlio, per esempio, che per lungo tempo ha disertato la terra dei padri per cercare fortuna altrove.
La globalizzazione non è arrivata al Sud, per fortuna. Se non nelle forme esteriori ed evanescenti dell’esibizione di stili di vita apertamente disprezzati da chi è rimasto avvinto alle radici del suo mondo. Quella che da secoli permane è la globalizzazione dei sentimenti: un canto sottile che si fa più insistente nelle fredde giornate invernali o nell’afosa controra estiva, quando anche gli amori avvampano nelle stanze in penombra ed il desiderio cresce nelle membra ossigenate da un’aria antica, sempre uguale a se stessa, che si stende su corpi estenuati e mormora di bellezze un po’ selvagge, fascinose ed altere come erano al tempo in cui le scrutavo passando per i paesi assolati, quasi vuoti all’ora del riposo diurno.
E l’amore va a braccetto con la morte nel Sud che ancora c’è. Laddove lo svuotamento delle carni è quasi sublime, quello dell’anima è tragico. Dove sono seppelliti mio padre e mia madre, mani pietose non fanno mai mancare fiori freschi e l’appuntamento settimanale di qualcuno con loro non è suscettibile di rinvii. Vorrei morire da quelle parti, nel mio Sud, non per essere onorato come mio padre e mia madre, ma semplicemente per stare un po’ ancora con loro, decomposto nel corpo, ma vivo nello spirito: almeno così, noi “sudisti” immaginiamo che debba essere la vita altra, dopo questa passata cavalcando illusioni.
Sto descrivendo una figura che non esiste se non nella mia immaginazione? L’antropologia di un meridionale è certamente diversa dalle altre. Né migliore, né peggiore. È così. Con i suoi caratteri, le sue manifestazioni esuberanti e tragiche, la sua intima religiosità che è pagana e cristiana allo stesso tempo, la sua concezione possessiva ed ossessiva dell’amore, la sua consapevolezza del limite dell’esistenza e della mistica credenza che essa continua nell’altro pena la decadenza, il suo attaccamento ad una terra e ad un mare fecondi ed avari al tempo stesso. La musicalità della tragedia è tutt’una con l’assenza di illusioni. Già, fatalista dicevo prima. E personalista. L’uomo del Sud non riconosce altro che chi gli si presenta davanti e lo seziona come farebbe un entomologo. Se potesse affiderebbe se stesso, la sua famiglia, i suoi beni, il suo destino e quello della sua comunità a chi conosce e lo convince piuttosto che a disperate classi di predatori politici che calano nella sua vita come alieni dal linguaggio incomprensibile, dai modi disinvolti, presuntuosi al punto di non ascoltare, ma superbi da impartire lezioni a chiunque. Alla persona si recano doni e disperazioni, allo sconosciuto diffidenza quando pretende di sottrarti l’anima e le piccole cose; generose sono invece le offerte quando l’ospite bussa con umiltà a qualsiasi porta nel Sud, sia essa quella del ricco o del povero, e ne rimane incantato.
È l’incanto di un mondo incomprensibile a chi lo guarda in televisione o leggendo i giornali poiché ci si fa un’idea che non corrisponde alla profonda essenza di chi vive nelle regioni che un tempo erano più splendenti di quanto si potrebbe immaginare, ed avremmo voluto tanto che in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia fosse stata proposta una riflessione attenta sulle ragioni, i modi e gli effetti di una “conquista” le cui ferite non si sono ancora rimarginate, tanto che l’Italia, oltre che politicamente divisa è soprattutto culturalmente frammentata. Ma l’occasione, com’era prevedibile, è stata mancata.
L’ornamento di una menzogna, peraltro sanguinosa, ha tenuto in un recinto il Mezzogiorno. E fa male tornare a Bronte, a Pontelandolfo, a Casalduni, sul Garigliano, a Gaeta, a Civitella del Tronto e sentire il cuore battere più forte perché là non troviamo l’Italia, ma gli italiani assassinati e disonorati da una storia scritta da barbari che, dopo oltre un secolo e mezzo, non conoscono ancora la pietà per i vinti.
Nonostante tutto, i meridionali ci sono ancora, con i loro tanti difetti e le loro tante virtù. Antropologicamente andrebbero preservati, ma dipende da loro soprattutto. Marcello Veneziani, in uno scintillante, avvincente e (almeno per me) commovente “viaggio”, intitolato appunto Sud (Mondadori), ha scritto: «Il meridionale si riconosce ancora, ha i suoi modi di fare e di dire, di atteggiarsi e di vivere, di gesticolare e di comportarsi. In bene e in male. E questo non impedisce di cogliere anche altre identità più larghe, come quella italiana, europea, occidentale; o altre più strette come adriatico marittimo o campagnolo, barese o napoletano». Queste caratteristiche sono «il suo modo di essere al mondo», dice Veneziani. Dunque, perché cancellarle, per quale motivo chiedere al meridionale di “modernizzarsi” (nel senso di involgarirsi), di accettare modelli di vita che non sono i suoi, dal battesimo al funerale, dalla tavola al talamo, dalla prodigalità alla diffidenza tipicamente contadina che si scioglie nell’abbraccio dell’altro quando qualità e valori come la lealtà, la sincerità, l’altruismo si manifestano davanti ad un piatto povero e saporito o ad un bicchiere di vino che illumina perfino l’occhio più spento?
La grazia del Mediterraneo, mare sacro per eccellenza, dove tutto ha avuto inizio, ha “formato” l’uomo meridionale. E la sua essenza non è pertanto quella del gaglioffo che una certa letteratura (pessima) vorrebbe far passare. Inutile dire che il Mezzogiorno non è soltanto criminalità ed immondizia: perfino nel caos di Napoli ci sono grazie forse un po’ celate che non sarebbe male andare a riscoprire; e nelle crepe calabresi si aprono varchi di umanità gentile difficilmente rinvenibili altrove; e nella sterminata e seducente Puglia l’eleganza e l’accoglienza si tengono per mano dalla Daunia al Salento, come tra i Sassi di Matera e le vestigia egiziane e longobarde del Sannio, mentre la magnificenza s’apre sullo splendore borbonico di Caserta e sulle realizzazioni “modernissime” della dinastia passata alla storia come la più reazionaria della Penisola. Tra i difetti del meridionale c’è l’ignoranza della sua storia e, dunque, la scarsa consapevolezza della propria identità. Se così non fosse si amerebbe di più. Ma forse anche questa caratteristica contribuisce a farne un unicum nel vasto catalogo di tipi italiani. Comunque sia, al Mezzogiorno dategli pure inutili (ed un po’ offensive) Casse, elargitegli interventi a pioggia, occasionali o continuativi, fategli pure la carità se tutto questo può in qualche modo servigli. Ma non toglietegli la sua luce, il suo segreto splendore. Non deturpate la sua anima. Fate che non diventi un’altra cosa. Certo, molto dipende dai meridionali stessi, ma li si aiuti a non cambiare più di quanto non sono già cambiati sotto la spinta di quella che chiamiamo “modernità”. Di ciò che resta di un popolo così non se ne dovrebbe fare a meno.