• 22 Dicembre 2024
Tradizioni & Leggende

Vi sono oggetti, profumi, sapori che d’improvviso animano immagini del passato conservate e forse dimenticate nel  baule della nostra memoria. Questi brandelli di filmati immateriali ora sbiaditi, ora nitidi come quelli ripresi da una vecchia superotto, spesso riguardano il Natale, lungo momento sospeso sopra il tempo ordinario e sottratto ad ogni sentimento che non sia quello della nostalgia.

Va detto che tutti i ricordi immagazzinati in quel baule non possono che appartenere al passato, anzi a spezzoni di quel passato, caratterizzati dall’epoca – dai luoghi, dalle abitudini, dai timori, dalle speranze e via dicendo – in cui furono realtà presenti e pulsanti. A ricordarmi oggi quel passato, sono i lavori periodici che mi sono assunto, per continuare la tradizione familiare, lavori che consistono nell’allestimento di un presepe sempre più grande e popolato, al punto che per tutto il periodo festivo ne risulta sconvolta la mia casa: resa inagibile la parte pranzo del salone, i tavoli che accoglieranno le pietanze della cena della vigilia e il nostro numeroso clan familiare vengono sistemati fra divani e poltrone, in un’altra parte del salone. Insomma, non vi è celebrazione della Festa senza una dose di spaesamento e insieme di sacrificio, e senza l’evidenza di un cambiamentorispetto al tempo ordinario.

Queste regole non scritte, ma molto sentite anche nella casa napoletana dei miei nonni paterni, venivano miracolosamente rispettate, pur in un appartamento molto più piccolo del mio di oggi, con l’aggiunta della straordinaria ospitalità della famiglia dello zio di Roma, il primo dei tre fratelli, figli dei miei nonni, e della rispettiva prole, i miei amati cuginetti. Anche lì si provvedeva allo spostamento dei mobili e al loro cambio d’uso (qualcuno – i più piccoli – dormiva sul grande tavolo da pranzo, e qualcun altro sulla sdraio, destinata non già alle spiagge, ma al balconcino dove mio nonno trascorreva i suoi momenti di relax).

Necessariamente, il presepe, che vedeva in mio nonno e in me i principali artefici (a dire il vero, il mio apporto di bimbetto era proprio minimo) e che si poneva come protagonista dei giorni precedenti il Natale, doveva essere collocato nella “periferia” della casa, proprio all’ingresso, dove c’era l’unico spazio rimasto libero; il che attribuiva alle mie visite solitarie, dopo la scuola e durante i miei frequenti soggiorni nella casa dei nonni, un carattere mistico. Di fronte a quelle grotte, a quelle rocce di sughero e muschio, di fronte a quel popolo reso immoto da chissà quale incantesimo, m’immedesimavo ora col pescatore davanti al laghetto di stagnola, ora col fruttivendolo nell’atto di magnificare la sua merce, ora con l’oste pronto a servire i suoi clienti già seduti sotto le luci rosse dell’osteria, ora col placido Benino, sprofondato nel sonno, in un pagliaio più in alto rispetto alla via delle botteghe, fra le sue pecore. Non osavo addentrarmi nel mistero dell’Incarnazione e in quella grotta più grande delle altre, quella col bue e l’asinello in fondo e, naturalmente, con i due Genitori in attesa dell’Evento, anche se me ne avevano parlato le suore dove andavo a scuola, in vista della preparazione per la Prima Comunione. E allora il mio sguardo si spostava verso la parte alta del presepe, quella che si perdeva nell’orizzonte di carta dove incombevauna notte orientale su di un paesaggio appenninico, con sagome di palmizi e, naturalmente, la stella cometa imbrillantata e sospesa a un invisibile fil di ferro. Da lì, da quel luogo remoto e magico scendeva una carovana dominata da personaggi ricchi e potenti – si capiva dalle loro cavalcature: tre cammelli bardati a festa – i Re Magi portatori di doni per il Nascituro; a piedi, li accompagnavano servi in abiti sgargianti, intenti a suonare trombe e tamburi misteriosamente silenziosi.

Nel loro cammino, incontravano pastori col loro gregge, villanelle nell’atto di fare il bucato alla fonte con acqua impietrita, e, udite udite, un monaco e un cacciatore con tanto di fucile, perché nella dimensione del presepe tutto è già accaduto, dalla fondazione della Chiesa (prima che nascesse Cristo!) all’invenzione della polvere da sparo.

Inutile dire che in quella Napoli non vi era traccia – e nemmeno contezza – dell’Albero di Natale, oggi, alle latitudini della civiltà dei consumi, simbolo più di regali che non di miti nordici. Troneggiava spesso invece, nel cuore delle dimore, quel braciere che ho ritrovato – sempre nella mia reale soffitta – fra le illustrazioni di un vecchio sussidiario. Da quel luogo caldo assediato dal freddo di abitazioni senza riscaldamento, promanava un gradevole aroma di mandarino, le cui bucce giallo-arancio si annerivano piano piano fra la cenere.

Infatti, nell’epoca in cui non erano diffusi termosifoni e stufe elettriche, scaldabagni e asciugacapelli, al riscaldamento si provvedeva con quello strumento di cui s’ignoravano i pericoli connessi a bruciature, esalazioni e possibili incendi: intorno a una pedana circolare di legno, al centro della quale, in una specie di bacinella di rame ottonato, ardeva una brace, ci si riuniva, per ascoltare le favole raccontate dai nonni o per fare quattro chiacchiere (in assenza del televisore…). Il carbone si comprava ovviamente dal carbonaio, un antro buio e polveroso poco lontano, curiosamente ubicato di fronte a un barbiere, che sotto le feste distribuiva ai clienti calendarietti profumati, con le foto delle star cinematografiche dell’epoca, tutte scollacciate e quasi tutte americane.

Intanto, in strada, in mezzo alla gente affaccendata ad effettuare gli ultimi acquisti per la cena della Vigilia, nel mercato multicolore con distese di melo grani, ceppi d’insalate e tini di vongole e “papaccelle” (quei peperoni verdi immersi nell’aceto), risuonavano le note degl’inni natalizi, delle cornamuse, suonate da personaggi venuti dai borghi montani lontani dalla città, personaggi che sembravano usciti dai presepi nascosti dietro quelle finestre illuminate.

A proposito di cinema: anche allora, il Natale aveva una sua controparte di festeggiamento laico, nel senso che in quel periodo si andava con i genitori ed eventuali fratelli a vedere le pellicole più celebrate, magari nelle sale di prima visione (una distinzione che non esiste più). Si poteva fumare (certo non noi bambini) e si poteva entrare anche a proiezione iniziata, con lo sconcerto di noi più ingenui di vedere all’opera, nel primo tempo, uno dei “cattivi” già ucciso nel seconda dal nostro eroe, proprio quando eravamo entrati noi. Nell’intervallo fra un tempo e l’altro, si potevano comprare dall’omino che li portava in spalla su di un vassoio precario dolcetti vari o la novità dei pop corn (i più grandi leggevano le quattro paginette di un giornalino dove c’erano le trame dei più importanti film in circolazione, dei cruciverba e delle vignette umoristiche invero insulse.

Accennavo alle differenze fra Nord e Sud, a partire dalla dicotomia Presepe/Albero, oggi inesistente, nel quadro di un’omologazione planetaria. Una di queste differenze che avverto solo da quando sono adulto la si poteva ritrovare proprio sulla tavola natalizia: panettoni zero e trionfo di struffoli, mustacciuoli e paste reali, ma prima ancora trionfo di animali venuti dalle acque, dolci o salate – capitoni, anguille, cozze, vongole etc… – e di fritti, che sacrificavano le donne di casa (ah, quella cultura patriarcale…) ai fornelli fin nell’imminenza della cena, perché la frittura va consumata così, ancora bollente, e via con gli spaghetti ai frutti di mare, all’insalata “di rinforzo”, e a seguire il baccalà nelle più diverse ricette e non so che altro (ma i lettori di “Sannio Matese” possono sempre consultare quelle fornite, anche con cenni storici, dall’amica Stefania).

Ancora prima, al momento di sedersi a  tavola – apparecchiata con la tovaglia “buona” delle grandi occasioni – si svolgeva la cerimonia della letterina, quell’elenco di buoni propositi riportati su di un cartoncino illustrato con disegni colorati e porporina sotto la guida di brave maestre. “Cari genitori, prometto di essere buono”, e spesso non si trattava d’ipocrisia volta ad ottenere regali (non previsti, da noi, a Natale, bensì alla Befana), ma d’ingenua, sincera cattiva coscienza per le birichinate fatte nell’anno. A mezzanotte, sosta per collocare il Bambinello nella sua mangiatoia e fine delle attese dei bambini ansiosi di vincere qualche monetina alla tombola, su quelle schede fatate e sperabilmente ingombre di fagioli secchi, segnaposto della fortuna (quale connubio fra natura e numerologia della “Smorfia!)…

La coda laica della tavola natalizia riguardava soprattutto gli adulti, dalle sigarette ai liquori, molti dei quali oggi scomparsi: il maraschino, il Doppio Kummel, la Slivovitz, il brandy Vecchia Romagna, il nocino preparato dallo zio, l’anisetta, e ovviamente il caffè, con i grani macinati dalla nonna col suo macinino e magicamente trasformati da polvere scura in bevanda fumante, sortita da una caffettiera da capovolgere abilmente. Frammenti di un Natale dentan, che paradossalmente riesce a restare fuori dal tempo.

Autore

Nato a Napoli, vive a Roma, dove svolge un’intensa attività pubblicistica. Ha collaborato e collabora con diversi quotidiani e riviste, alcune delle quali ha contribuito a fondare. Ha pubblicato romanzi, poesie e saggi, l’ultimo dei quali, “Giornale di un viaggiatore ordinario” è stato pubblicato da Tabula fati (Chieti 2022).