Nell’ottobre scorso, il presidente dell’istituto universitario europeo di Fiesole (Firenze), Renaud Dehousse se ne uscì con una specie di sgangherato proclama, in omaggio alla travolgente cancel culture, nel quale chiedeva (non si sa bene a chi o a quale istituzione) di abolire la parola “Natale” per non offendere chi non era cristiano ed in evidente coerenza con il principio dell’inclusione culturale di tutte le fedi e le credenze. Insomma, in omaggio all’affermazione dell’ “uguaglianza etnica”, che è una vera e propria presa in giro poiché il mondo è fatto di differenze e non di omologazione forzata, noi italiani e presumo tutti gli europei e gli occidentali, secondo il fantasioso funzionario, avremmo dovuto cancellare ciò che religiosamente e identitariamente ci definisce, il Natale, appunto.
La logica sottesa alla bizzarra proposta sarebbe stata quella di ottemperare agli obblighi del “Piano per l’uguaglianza etnica e razziale dell’Eui”, cioè il “geniale” progetto di abbattere usi e costumi propri della civiltà religiosa cristiana che connota il nostro modo d’essere e di pensare da duemila anni, per compiacere coloro che, provenienti da mondi lontani, si sono allocati nei nostri Paesi occidentali. Lo scopo, dunque, condiviso da numerosi esponenti dell’ establishment culturale e politico, ma contrastato dai “semplici” non ideologizzati, sarebbe stato quello di sovrapporre al riferimento cristiano una non ben identificata “festa d’inverno” oppure di “fine anno”. Una kermesse laica, insomma, allegra, spensierata, multietnica e multiculturale.
Oltre che ignobilmente blasfema ed offensiva per milioni di persone, la proposta si ispira ad uno gnosticismo che rimanda al relativismo culturale secondo il quale tutti hanno il diritto di appartenere ad una indistinta comunità priva di differenze e di un “sentire” che è a fondamento della vita di popoli che sono stati plasmati secondo il primato di una religiosità che non è soltanto fede, ma anche cultura civile.
Beninteso, penseremmo la stessa cosa se a qualcuno saltasse in mente di chiudere le moschee, abolire le feste musulmane, dichiarare illegale l’ islamismo, il buddismo, l’animismo e via elencando. I popoli si sono formati secondo indirizzi di pensieri e fatti storici non transeunti. La nostra Europa si è data una veste Cristiana quando nel Natale dell’800 Carlo Magno si fece incoronare imperatore dei romani dal pontefice Leone III nella Città Eterna che sarebbe divenuta la capitale della Cristianità e del Cattolicesimo. E proprio il Natale, origine e sintesi di una religione dovrebbe essere abolito? Curioso poi che l’oscena proposta si stata fatta dal presidente di un ente la cui sede è in luogo legato alla cattolicità , la Badia Fiesolana, dove un tempo sorgeva l’oratorio dedicato ai santi Pietro e Romolo (patrono di Fiesole).
L’infelice proposta s’inquadra nella logica del “politicamente corretto”il cui scopo è l’assimilazione di tutte le culture ed è nella linea di pensiero che punta a cancellare dai luoghi pubblici, a cominciare dalle scuole, i simboli del cristianesimo.
Si ricorderà che secondo un laicismo sfrenato si sarebbero dovuti togliere i crocifissi dalle scuole, mentre della preghiera del mattino che un tempo risuonava nelle aule scolastiche non c’è più traccia.
Lo scopo sarebbe il rispetto delle altre credenze, secondo i sostenitori del relativismo culturale. Ma non è così. Il motivo reale è l’affondamento dei principi-cardine della nostra civiltà, nel nome di un vago rispetto di chi non la pensa come noi e che non si pone neppure il problema della convivenza tra popoli fondata sulle diverse identità. La scristianizzazione dell’Occidente passa attraverso un laicismo estremista che proprio gli occidentali, con la cancel culture e la cultura Woke che sostanzialmente disprezza tutto ciò che è tradizionalmente consolidato.
Il Natale non si tocca. E non si toccano neppure i segni di una civiltà, la nostra, che per quanto in crisi è e resta ancora il cuore di una umanità che cerca nella convivenza tra i popoli la via per raggiungere la pace. Può sembrare utopistico in tempo di guerra, ma non c’è altro modo per salvare popoli e nazioni.